domenica 26 giugno 2016

Il prof. Umberto Boella incontra Seneca


     E' noto che Annibale mosse il suo esercito di 90 mila fanti, 12 mila cavalieri e 37 elefanti (prototipi dei moderni carri armati) nella primavera del 218 a.C. Per attaccare Roma partì dall’Africa e dopo aver attraversato Spagna e Francia arrivò in Italia oltrepassando le Alpi con meno soldati e cavalieri ma sempre con 37 elefanti. Il varco alpino che scelse fu quello del Monginevro che gli consentì la discesa nella Val Susa (antica TAV!): così ha ricostruito la maggioranza degli storici. 
     Non si sa però che una pattuglia di questo enorme esercito perse la strada e si affacciò all’Italia dal Colle della Maddalena. Fu lì che in quel giorno di fine ottobre si trovava (come spesso faceva per il suo inesausto amore per la montagna) e con un gruppo di suoi allievi del Liceo Classico Silvio Pellico di Cuneo, il prof. di latino e greco, Umberto Boella. E meno male, perchè le guardie confinarie all’apparire dei soldati di Annibale, per lo più di pelle nera, si erano asserragliati nel piccolo posto di confine ai bordi del laghetto e non sapevano che fare: “Non basta che arrivino dal mare e ce li mandino con i pullman: invadono la “padania” e bevono l’acqua del Monviso…”  
     Fu il Prof. Boella, forte del suo latino e greco, che andò ad interpellare i “barbari” e incappò in Seneca.
     Il prof. Boella non voleva credere a quel signore dalla barba bianca che si era presentato: “Anneo Seneca, inviato speciale”. Dopo un primo momento di perplessità (Seneca a lui risultava  fosse nato duecento anni dopo la calata di Annibale) Boella capì. Lo storico, il filosofo stoico,  voleva capire cosa era stata la 2° Guerra Punica, la lotta tra due civiltà. Era così che doveva fare uno scrittore, filosofo dei fatti: vederli e capirli di persona, non bere l’acqua che ti porgono, più o meno interessatamente, gli altri. Prendere posizione ed essere coerente. 
    Boella conosceva bene il suo interlocutore: nel 1969 aveva tradotto le sue “lettere morali a Lucilio” e quindi fu ben lieto di conversare con l’antichità nel fluente latino che gli aveva fruttato il premio al 4° Certamen Capitolium di Roma.
    Quella sera vicino al fuoco, con un bicchiere di vin brulè sul tavolo ed in mano un libro, i due latini conversarono amabilmente dei loro mondi cosi lontani temporalmente ma così vicini negli accadimenti e nei vissuti storici.
    Seneca era uno scrittore di tragedie: le sue sono le sole opere tragiche latine pervenute in forma non frammentaria, e costituiscono quindi una testimonianza preziosa sia di un intero genere letterario, sia del pensiero politico del suo tempo in cui l'élite intellettuale senatoria ricorse al teatro tragico per esprimere la propria opposizione al regime (la tragedia latina riprende ed esalta un aspetto fondamentale di quella greca classica, ossia l'ispirazione repubblicana e l'esecrazione della tirannide). Le varie vicende tragiche si configurano come scontri di forze contrastanti e conflitto fra ragione e passione. Nelle tragedie sono ripresi temi e motivi delle sue opere filosofiche; il teatro senecano risulta, sotto forma di exempla forniti dal mito, una esposizione della dottrina stoica, ove il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, appare come l’unico strumento dell’uomo capace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male.
    Infervorato Boella incominciò a recitare:

Cum vita iaceret in terris oppressa gravi sub religione… 
“Mentre la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione,
che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile aspetto incombendo dall’alto sugli uomini,
per primo un uomo di Grecia ardì drizzare gli occhi mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro:
non lo domarono le leggende degli dei, né i fulmini, né il minaccioso brontolio del cielo;
anzi tanto più ne stimolarono il fiero valore dell’animo, così che volle
infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo”

   Ma questo è Lucrezio sbottò Seneca: “Io nacqui quando lui era già morto da alcuni anni ma il suo ricordo era ben presente a Roma: un bel vecchio con la barba bianca e lo sguardo fiero. Un solitario che finì per suicidarsi. Quando ti trovi di fronte al muro della incomprensione e dell’impotenza, l’unica vera liberazione è il suicidio”. Boella sapeva che anche Seneca sarebbe finito così.
    In quella temperie di alta cultura e vibrante passione politica si sentiva perfettamente a suo agio. Lui che aveva vissuto tutto il periodo del regime fascista in Italia, prima la guerra nazi-fascista, ed in ultimo la resistenza partigiana contro gli occupanti tedeschi e i collaborazionisti fascisti, sapeva bene come si possono far sorgere anche nel più ignaro dei giovani quelle domande morali e politiche a cui dare direttamente od indirettamente le risposte giuste. L’insegnamento era stato lo strumento con cui cercare risposte positive per la sua coscienza e operare concretamente per formare tante giovani generazioni e finire con quella che aveva pagato col sangue i suoi ideali.
 Ma che cosa sanno di me – chiese Seneca – i suoi amici professori? E Boella raccontò: “Io sono arrivato a Cuneo – la piccola città di provincia, al fondo di questa Valle Stura – il 3 Gennaio 1937 come vincitore di un concorso di lettere latine e greche presso il locale Regio Ginnasio Liceo “Silvio Pellico”. Pensi la scuola più formativa della nostra gioventù la definiamo “gimnasium” come facevate voi duemila anni fa”. Seneca sorrise compiaciuto.
    “La mattina era fredda – proseguì Boella – ma serena, e grazie all’aria limpida e trasparente, la città mi apparve bellissima nella cerchia della Alpi Marittime bianche di neve. Io amo le montagne. Allora a Cuneo correva una diceria: “Chi viene a Cuneo ha solo due alternative, o si sposa o va in montagna”. Avendo io scartato, per allora, la prima, scelsi la seconda; e così cominciò la mia lunga appassionata frequentazione della Alpi Marittime d’inverno e d’estate. Ecco perché mi trova qui. Ma lei – caro Maestro - mi chiedeva dove gli uomini d’oggi possono ancora - dopo tanto tempo - incontrarla e dialogare con Lei”.
  “In quei primi anni del lavoro di insegnante a cui dedicai tutta la mia vita, - proseguì Boella - Cuneo era ancora una piccola città, che praticamente, finiva poco sopra la Piazza Vittorio (la grande piazza di Cuneo) con le prime costruzioni di corso Nizza; il passeggio era limitato ai portici della piazza e di via Roma e noi giovani professori “forestieri” eravamo lasciati un po’ in disparte dalla popolazione cuneese, riservata, poco incline ad uscire di casa, anche a causa delle memorabili nevicate. Trovavamo allora rifugio nella libreria situata accanto al Duomo, l’unica esistente in Cuneo, dove ci accoglieva l’ottimo libraio sig. Nenci ed incontravamo alcuni colleghi, più anziani di noi, affettuosi e disponibili come il prof. Baccalario, l’ing. Mantellino, il prof. Ottenga dell’Istituto Tecnico Bonelli.  Quella libreria svolse un ruolo importante  nella vita culturale della Cuneo di quegli anni ed è lì che la conobbi caro Maestro Seneca, come conobbi, Lucrezio. Voi uomini di un lontano passato ma con il travaglio dei problemi di sempre  ed io mi sentivo Vostro contemporaneo ed amico.”
Boella si era perso nel libro di Seneca che aveva portato con sé ed i suoi pensieri l’avevano trasferito in quei tempi lontani fino a sentirsene parte, ma una voce lo risvegliò:
“Professore, professore, venga che la corriera non ci aspetta…”. La voce di Ezio Tassone, uno dei suoi allievi più bravi, lo riportò all’oggi. Dovette richiudere il libro di Seneca e interrompere il dialogo con lui, ma sapeva che l’avrebbe incontrato ancora, soprattutto lì nelle sue montagne, dove l’aria è limpida, pura e stimolante. 


Tetto de’ Chivalieri, Agosto 2011

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