domenica 26 giugno 2016

Il prof. Luigi Pareyson e la fisarmonica



 La classe del prof. Luigi Pareyson (detto il filosofo della libertà) era formidabile. Erano suoi allievi: Umberto Eco, Gianni Vattimo, Guido Ceronetti, Sergio Givone, Francesco Tomatis, Maria Lucia Villani, Michelangelo Ghio, Valerio Verra, Franco Cordero, Giorgio Bocca. Le sue lezioni erano considerate veri e propri avvenimenti culturali tanto che, eccezionalmente, era stato consentito di assistervi anche se non si era direttamente allievi del Liceo.
       Probabilmente gli allievi, allora giovanissimi, non si rendevano conto del fatto che il loro professore sarebbe stato considerato uno dei massimi filosofi del ‘900. Si rendevano però conto – come tutte le generazioni che si incontravano per la prima volta con il pensiero filosofico - che era da quelle meditazioni che dipendeva il loro futuro modo di capire la realtà e quindi di viverla.

Il ricordo delle sue lezioni è possibile averlo attraverso gli appunti che prendeva un futuro filosofo cuneese, Francesco Tomatis, in cui si legge: “La personale versione dell’esistenza di Pareyson è quella di un esistenzialismo personalistico ed ontologico. Personalistico perchè è la singola persona vivente, non un astratto a priori trascendentale od esistenziale, a qualificare l’esistenza e la sua inaggirabilità, pena l’intransitabilità di qualsivoglia minimo senso della realtà e delle vita umana. Ontologico perchè è nell’apertura all’essere che ci trascende, che mi trascende, che io posso scegliere ad essere me stesso. Che l’esistenzialismo non possa che essere personalistico e che il personalismo non possa che essere ontologico ci dice allora che l’esistenza è quia talis apertura di trascendenza, quindi possibilità di esperienza religiosa”.

A parte la difficoltà del linguaggio di Tomatis, che peraltro riflette la complessità del pensiero di Pareyson, anche solo da queste poche righe si capisce come nel cervello dei giovani che per la prima volta  nella loro vita affrontavano la filosofia simili discorsi ponevano un mucchio di domande.

Poichè le risposte del professore cercavano di conciliare la persona vivente, non un astratto a priori trascendentale, con l’apertura all’essere che ci trascende e quindi finivano per proporre la possibilità di esperienza religiosa, al povero studente - nella miglior delle ipotesi - rimanevano un mucchio di dubbi.

Loro avevano le pulsioni e le passioni dei diciott’anni e il loro corpo nella sua fisicità proponeva forza, velocità, sesso, ed anche chiarezza e sincerità nelle risposte.

Avevano rispetto per il prof. Pareyson, come lo incuteva anche il suo modo di apparire: quei vestiti sempre scuri, quei capelli rigorosamente impomatati, quegli occhiali cerchiati d’oro, ma quando tornavano a casa e cercavano di “studiare la storia della filosofia” che cosa rimaneva del pensiero del professore?

     Dal pensiero greco alla teoria cattolica fino all’illuminismo e poi al positivismo (del pensiero contemporaneo non si riusciva mai a parlare prima dell’esame finale) una quantità di indicazioni, elucubrazioni (per lo più difficili e fumose). Ma a cosa mi serve tutta questa massa di pensieri? si domandavano. Cosa sarà della mia vita? come mi debbo comportare con gli altri, soprattutto nei rapporti con uomini e donne? Perché le persone care muoiono, perché della guerra, perché il male? E i giorni passavano, apparentemente sempre uguali. Finita la guerra – si dicevano questi giovani – sono finite le passioni e le emozioni? La filosofia del prof. Pareyson non aiutava!

    Chi pareva capire meglio questi giovani era un altro insigne professore di lettere del Liceo S. Pellico: il prof. Leonardo Ferrero (1915–1965). Egli scriveva: “Lavorando seriamente a fare scuola, si vedeva che l’atteggiamento, l’orientamento critico incominciava a fruttare, che i giovani, messi davanti a delle realtà estremamente drammatiche, impellenti, urgenti, capivano effettivamente certi problemi che potevano a prima vista sembrare estremamente lontani. Ma è proprio su questo terreno che si formò un impianto solido, anche se modesto e silenzioso. La prova è che proprio nell’ambiente degli studenti le leve partigiane trovarono un contributo quasi inaspettato, ma soprattutto spontaneo”.

Un giorno il “professore” – sempre puntualissimo – non venne a scuola. Il Preside Gasco, detto “il nonno”, mandò il bidello a casa sua ma lui tornò a mani vuote perchè disse: “Era uscito di buon’ora ma non aveva detto dove andava”.

“Io lo so dove è andato” disse Umberto Eco, l’allievo ficcanaso fin nei recessi della storia medioevale. “Al cine va al pomeriggio a vedere i film americani, anche due di seguito. Ma ieri è arrivato a trovarlo Eugenio Montale e io so dove i due amiconi sono andati.  Venite con me”.

Quasi tutta la classe lo seguì e lui li portò al fondo del Viale degli Angeli e lì nell’Osteria, sotto una “toppia”[1] fiorita, ai suoi allievi attoniti si parò innanzi una scena incredibile: Luigi Pareyson - il filosofo - suonava il tango sulla fisarmonica ed Eugenio Montale - il poeta - con un grosso tovagliolo in mano lo sventolava a destra e sinistra come una mantiglia da torero. Con loro era l’amica, allora amorosa di Eugenio, Maria Luisa Spaziani che lo racconta ancora oggi, e ridevano, ridevano.

I ragazzi si ritirarono in silenzio per non farsi vedere, quasi vergognosi di aver violato l’intimità del loro maestro. Ma da quel giorno ed ai loro occhi non solo il professor Pareyson era diventato un uomo normale ma i rigidi insegnamenti morali che a loro cercava di trasmettere insegnando Kierkegaard apparivano incomprensibili se non ipocriti. Cosa voleva dire: “La sfera estetica[2] è passaggio necessario alla moralità, tanto che solo come uomo estetico l'uomo è veramente uomo. L'unica educazione possibile è l'educazione estetica.” A loro sembrava di capire che tutti i quesiti umani si potessero risolvere nella sfera dei fatti dove il giudizio estetico (cioè sulla forma) è sovrano; ma la realtà insegnava che non tutto quello che è bello è anche buono, c’è il problema del male. Era Pareyson che diceva: “Il male non è assenza di essere, privazione di bene, mancanza di realtà, ma è realtà, più precisamente realtà positiva nella sua negatività.” Ma allora Pareyson usciva dal giudizio estetico e volava più alto della materia ed affermava: “il problema del male affonda le sue radici nelle oscure profondità della natura umana e nel segreto recesso dei rapporti dell'uomo con la trascendenza.”

     Probabilmente era una specie di pietas verso il dolore umano (lui che l’aveva provato nel suicidio della sorella) inflitto dai tanti mali della vita che lo induceva a guardare in cielo, lui filosofo, come una qualunque donnetta da chiesa. Lo si capiva da affermazioni come questa: “È solo la consapevolezza della condivisione della sofferenza umana da parte di Dio, che può impedire alla sofferenza d'essere un aumento della negatività dell'uomo”.

          Probabilmente alla maggioranza dei suoi allievi andava bene così: non capivano e non si sforzavano più di tanto; ma non a tutti piaceva così! Ed un giorno che Lui arrivò a dire: “Non è senza ragione che l'esperienza religiosa punta soprattutto sul Dio sofferente e redentore, il che conferma che sul problema del male l'ultimo ricorso è alla religione, non certo alla morale” Ulisse S. sbottò: “Ma professore se la pensiamo così finiremo di assistere inermi ai peggiori delitti della storia.” Ulisse S. non sapeva che Pareyson uomo “resisteva” e nel silenzio: proprio a Cuneo negli anni bui della guerra aveva promosso le prime riunioni del Partito d’Azione. In casa sua si radunavano per ascoltare “Radio Londra” i prof. Leonardo Ferrero, Adolfo Ruata e sua moglie, il giudice Antonino Repaci, l’avv. Tancredi (Duccio) Galimberti e l’avv. Marcello Bianco.

Ma Ulisse S. che stimava suo padre e lo vedeva ogni sabato vestire l’orbace[3], infilare gli stivali, mettere in testa il fez e recarsi all’adunata fascista a cui partecipava pure lui come balilla alpino non aveva dubbi: era quello l’insegnamento “morale” della società in cui si viveva allora e pareva per sempre. E la Chiesa che Ulisse frequentava da chierichetto presso i Gesuiti del Collegio dei Tommasini, non era forse parte costitutiva di quella morale? 

     Poi venne la guerra vissuta da Ulisse come dai suoi compagni di scuola fino alla vista dei cadaveri degli impiccati, dei fucilati, dei torturati e la  “morale” di un tempo era sprofondata in un baleno e con vergogna.  Ma una “morale”, una regola di condotta, ci vuole! Man mano che cresceva Ulisse S. si rendeva conto che per vivere l’uomo ha bisogno di “certezze” di credere in qualcosa su cui fondare le proprie decisioni e che giustifichi il suo agire e possibilmente lo soddisfi. Ma aveva ben visto come la morale su cui suo padre aveva costruito la sua vita e indirizzato la vita della sua famiglia era crollata miseramente.

     Più che parlarne con un professore chiuso nella sua turris eburnea se ne parlava tra noi compagni. Un giorno una ragazza tosta (si chiamava Oriana Fallaci) fece un bel discorsetto: Perchè ormai l’ho capita, la Vita, e sono una persona lacerata dai dubbi che vengono, a capirla. Non è consolante capire la Vita, anzi è terrificante. Significa perdere riferimenti cui ci si appoggiava prima di capirla: il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto. Quando la Vita era mistero, quindi ricerca, quei riferimenti costituivano certezze che permettevano di prendere una strada senza esitare, ed esprimere giudizi precisi. Quando invece ti accorgi che il bene ed il male sono punti di vista come il vero ed il falso, il giusto e l’ingiusto, ogni strada t’appare incerta ed ogni giudizio arbitrario. Ti senti sicuro solo dei tuoi dubbi, e della tua solitudine”.

     Ulisse S. voleva uscire dal dubbio e provocato da quanto diceva Oriana era arrivato alla semplice constatazione che gli uomini in ambienti e civiltà diversi praticano costumi e moralità diverse. Ne aveva visto conferma confrontando la moderna morale con quella della civiltà classica, base di studio del suo Liceo.

Per esempio Plauto e Terenzio hanno messo in luce, fra il resto, che ai loro tempi la “schiavitù” era un fatto normale ed universalmente accettato come lecitamente “morale”.

     Poiché le commedie plautine (come in genere tutto il teatro) sono lo specchio della società vivente, è facile dedurne che questo atteggiamento "morale" sulla schiavitù - oggi assolutamente deprecata e giuridicamente abolita - è strettamente legato ai tempi storici  in cui ha ampiamente proliferato. Non solo, ma connessi a questo grande fenomeno della schiavitù vi erano problemi che la “morale” di oggi certamente condannerebbe ed invece in quella società ed in quei tempi erano considerati assolutamente normali (per esempio l’eutanasia dei fisicamente diversi). In più c’erano i delitti commessi in nome dei c.d. principi morali. Non tutti sanno che verso la fine della loro vita - quando praticamente non servivano più - si liberavano gli schiavi condannandoli alla più misera delle fini: senza mezzi e senza possibilità di procuraseli era la morte sicura in breve. In un gesto apparentemente generoso, moralmente encomiabile, si celava ipocritamente la più dura crudeltà! E questo spiega anche la "malizia" degli schiavi come in genere degli oppressi e dei poveri (tanto censurata da Catone che si lamentava della pigrizia degli schiavi come manifestazione della loro furbizia e disonestà). In realtà questa pretesa “malizia” era solo una forma di difesa dei più deboli verso le vessazioni del più forti. 

Ecco il "relativismo" della morale pensava Ulisse S. e proseguiva: oggi che si discute sugli atteggiamenti da assumere sulla vita (medicina biologica) e sulla morte (eutanasia) certe certezze e sicurezze di insegnamento e anche di imposizione dovrebbero essere molto meno sbandierate come "valori” irrinunciabili. Non esistono i valori eterni ed assoluti (come pretendono le religioni) ma solo convenzioni storiche e locali per determinare le regole minime di convivenza fra gli uomini in un determinato momento ed in un determinato luogo. Se funzionano per alcuni (rendono cioè la vita più vivibile) potrebbero essere estese anche ad altri ma con il loro libero consenso e non imposte indiscriminatamente a tutti.

     Come tutti i neofiti specie se armati di giovanile ardore Ulisse S. riteneva di aver trovato una chiave interpretativa dell’intera esistenza, una Weltanschauung (visione/immagine/concezione del mondo): si ispirava ad essa ed in essa confortava la sua vita.

          Per sfuggire al dramma del dubbio ed all’inerzia dell’incertezza Ulisse S. si creò la filosofia delle “certezze relative”. Partì da un’affermazione basilare: “non esiste la verità, e sopratutto non esiste una verità assoluta ed eterna”. Ma poiché bisogna pur avere dei criteri di valutazione a cui ispirare il proprio comportamento giunse alla conclusione che ognuno di noi debba tendere a crearsi delle certezze. Senza delle certezze non puoi mai decidere e quindi finisci per non agire. Si tratta di avere il senso della relatività di queste certezze sapere che sono tali alla luce di quanto sai, allo stato delle conoscenze e delle esperienze del tempo in cui vivi. Quando queste si modificassero e mettessero in dubbio la fondatezza di tali certezze, devi essere disponibile a modificarle, a cercarne delle altre che reggano alla prova dei nuovi elementi che hai acquisito. E’ questo il procedimento del sapere scientifico, dove una teoria che spiega certi fenomeni in un certo momento storico può essere abbandonata, quando si riveli inadeguata a spiegare nuovi fenomeni. Alla vecchia teoria (fonte fino ad allora di una certezza nel procedere) si sostituirà la nuova che possa spiegare il nuovo fenomeno o il vecchio che si è appalesato diverso da quanto finora si credeva. Ecco allora che la nuova “teoria e/o certezza”, sostituisce la vecchia che quindi dimostra la sua “relatività”. 

Ulisse S. era quindi giunto alla conclusione che al posto della verità, a cui peraltro anela indefessamente il pensiero umano, ci si debba accontentare di “convenzioni”, cioè di verità-convenzionali,  postulato di ogni altro pensare, frutto di un accordo, di una convenzione operata dagli esseri umani in un certo periodo storico, in un certo ambiente naturale.

Sembravano nostri pensieri ma non ci rendevamo conto che tutto questo argomentare era prodotto del metodo ermeneutico (alias interpretativo) dell’insegnamento del nostro prof. Luigi Pareyson, ed all’ombra di questo “buon maestro”, crescevamo.

Pensandoci bene anche Pareyson, in fondo in fondo, era un relativista. E’ vero che era amico della verità ma più che della verità era amico della libertà. Diceva “solo la verità che si lascia interpretare è una verità libera, una verità che non è mai inchiodata al fondamento che la giustifica”.

Dopo tanti anni da allora, nel 1991 (l’anno della sua morte) sono andato a trovarlo a Rapallo dove si era ritirato – per motivi di salute - in un piccolo appartamento. Lo trovai intento a girare con una palettina un pescetto nell’acquetta leggera della pentola. La “frittura dietetica”, era una sua specialità di cui vantava le doti probabilmente apprezzate solo dal suo stomaco delicato: ma per me era anche una formidabile metafora della sua filosofia.

Parlammo e lui si ricordava benissimo dei suoi anni cuneesi e dei suoi allievi.

Io gli rammentai Eco, Vattimo, Girello, Tomatis ed allora mi disse: "Mi dà un’enorme soddisfazione, sia pensare che ciascuno di loro ha potuto prendere uno spunto da me, sia vedere che hanno imboccato strade tanto diverse, al punto che io stesso posso trovarmi a polemizzare con questo e con quello. Sono due soddisfazioni che non solo non si contraddicono, ma che addirittura si combinano perfettamente... E poi, sa, io una certa aria di famiglia ce la vedo. In cosa? Non so, forse nella medesima fede nella libertà della ricerca, nell'assoluta dedizione ad essa.”

Credo che questo invito alla libertà della ricerca, e quindi alla libertà di vita (vi ricordate la fisarmonica) sia l’insegnamento più utile che Luigi Pareyson abbia dato a tanti ed anche a me.       
Tetto de’ Chivalieri, Agosto 2011




[1]  Espressione dialettale di “pergolato”.

[2] Estetica: la disciplina filosofica che si occupa del bello e dell’arte. Modernamente (Gadamer) si pensa che “l’estetica deve risolversi nell’ermeneutica” (l’arte o tecnica dell’interpretazione).


[3]  Divisa fascista nera confezionata nel tipico tessuto sardo fatto di lana.

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