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RACCONTI FATTUALI di Antonio Sartoris
Intendo come Arte Fattuale la manifestazione e/o attribuzione di un pensiero artistico, cioè espressivo, ad un soggetto o ad un fatto di per sé puramente funzionali. Con questo metodo racconto di fatti diversi dalla realtà e di personaggi che sono vissuti in luoghi ed epoche diverse: attualizzo cioè fatti e personaggi storici all'insegna della fantasia che ho definito figlia sfrenata della libertà. Antonio Sartoris
mercoledì 25 marzo 2020
lunedì 18 giugno 2018
CHIARINA, racconto di fantasia, ma non troppo
ANTONIO SARTORIS
CHIARINA
Racconto di
fantasia, ma non troppo
A porta aperta
Quaderni di Casa Delfino n.8
2018
Edizioni Fondazione Casa Delfino onlus
C.so
Nizza 2, 12100 Cuneo (Italia)
www.fondazionedelfino.it
E-mail:
info@fondazionedelfino.it
Impaginazione:
Paola Bosa
Stampato
in proprio - I^ edizione maggio 2018
Suonate sempre con anima; suonate non solo
con le dita, ma anche con la testa e col cuore. Nulla di più grande si può
compiere senza entusiasmo; non si è mai finito di imparare; la migliore cura
contro la vanità e la presunzione è lo studio della storia della musica"
Robert Schumann
Il castello di Passerano-Marmorito (un
paesino piemontese in provincia di Asti) si eleva imponente e un po’ tetro
sull'abitato di poche centinaia di anime. La sua attuale costruzione risale al
Trecento, fu ampliata nei tre secoli successivi, ma la sua origine si attesta
all'Alto Medioevo.
Julie Schumann, terza figlia di Robert e
Clara, era giunta in questo castello avendo sposato a Lichtental, presso
Baden-Baden, il 22 settembre 1868, il conte Vittorio Amedeo Radicati di
Marmorito.
Quel giorno guardava il giardino che era
triste del grigio dell’autunno. Si accorse che con il pensiero stava andando
lontano ed allora girò lo sguardo all’interno della stanza calda del fuoco nel
caminetto e dei velluti alle tende e alle poltrone. Troneggiava il grande
pianoforte a coda dove aveva suonato sua madre, Clara Schumann, che glielo regalò quando era andata a trovarla.
Quel pianoforte era già in casa di suo
nonno il prof. Wieck quando Clara studiava e poi lo portò con sé nelle case di
Lipsia e di Dresda, dove era andata ad abitare con il suo Robert. Era un pianoforte
che sapeva tutto dei coniugi Schumann.
Julie posò le mani su quel pianoforte,
amico di sua madre, e ricordò quanto Lei le aveva raccontato:
“Era un tiepido pomeriggio d’estate,
un ragazzone alto e massiccio, dagli
occhi incantati sotto un bel ciuffo di capelli castani camminava con il suo
lungo passo e parlava, parlava, lo sguardo fisso al cielo. Lui si chiamava
Robert Schumann e chiamava me, poco più di una ragazzina, Chiarina. Ero
diventata sua amica. Gli saltellavo dietro ed ogni tanto gli afferravo una
manica perché non incespicasse nelle pietre del sentiero. Malgrado le mie
precauzioni, a volte, faceva un capitombolo: ridevamo insieme e lui mi parlava
della bellezza come forza morale; dell’arte come consolazione; dell’artista che
opera nella certezza di avere con sé, da presso o da lungi, almeno un’anima
bisognosa e desiderosa del suo messaggio.
Era l’allievo prediletto di mio padre, il
severo prof. Friedrick Wieck, grande pianista ed il più noto insegnante di
Lipsia, e a lui queste passeggiate non piacevano per niente. Finì che, per
tenermi lontana da lui, mi mandò a fare un riuscito e lungo giro di concerti nelle
grandi capitali d’Europa, avevo solo sedici anni.
Ma
tornai, e la mamma mi disse 'È ora che entri nella nostra società e magari
trovi un buon partito'.
Al braccio di mio padre andai al gran
ballo nel palazzo del principe Orloski e fu lì che vidi un giovanotto venirmi
incontro e porgendomi una rosa disse 'Sono Robert Schumann, permettete questo
ballo?'. Non mi riconobbe: ero diventata una donna. Ballai con lui l’Invito alla danza, superbamente scritto
per pianoforte da Carl Maria von Weber, ma che ora suonava l’orchestra. Il
valzer è un girotondo di voluttà intima ed estenuata, che io ballai, sfidando
le occhiatacce di mia madre, allacciata a lui,
petto contro petto, alito contro alito. Eravamo di nuovo insieme.
Era bello ed elegante il mio Robert -
ricordava mia madre con un sospiro - ma per i miei non era un buon partito. Era
sempre in bolletta: mio padre mi raccontava che era giunto a mangiare solo
patate, aveva venduto per vivere anche i suoi libri, ed era lui che doveva
fargli qualche piccolo prestito. Il concertista che voleva diventare e per cui
studiava e studiava, non poteva più diventarlo, perché a forza di esercizi di
difficoltà trascendentale si era rovinato un dito.
Nonostante tante predizioni di
sventura io volevo Lui. Fui costretta andare in Tribunale per liberarmi del
veto di mio padre perché non avevo ancora la maggiore età di legge, ma la
spuntai io e ci sposammo.
Abbiamo abitato prima a Lipsia all’ombra
del grande Bach, poi a Dresda, per ritornare poi a Lipsia, anche per la nostalgia
della famosa orchestra del Gewandhaus diretta dal suo amico Felix Mendelssohn.
Avevamo una casetta piccola, stile Biedermeier, ma è lì che ebbi i miei otto
figli (tu sei nata terza nel 1845).
Purtroppo non ho potuto seguirvi molto
perché dovevo girare mezza Europa per suonare come concertista e, senza falsa
modestia, direi con notevole successo, lasciandovi affidati a Vostro padre che
avendo rinunciato a fare il concertista per l’infortunio alla mano faceva il
compositore ed il giornalista.
I suoi risultati economici non erano molti, ma
lui si prendeva le sue soddisfazioni ed io ero contenta. Ha fondato il primo
giornale di cose musicali il Neue Zeitschrift für
Musik ed in epigrafe vi ha scritto le seguenti parole tratte dall’Enrico VIII
di Shakespeare: 'Coloro che venissero qui per assistere ad uno spettacolo gaio
e licenzioso, per intendere uno strepito di scudi cozzanti o per vedere un
buffone in veste screziata, listata di giallo, rimarrebbero assai delusi nella
loro attesa'. Così penso venga fatta l’arte. Con questo giornale e con queste
idee si incominciava a parlare di lui in tutta la Germania. Un bel giorno è
venuto alla nostra porta un bel giovane. 'Mi chiamo Johann Brahms' si presentò
'e vengo da Amburgo'. Robert lesse le sue composizioni e mi disse che aveva
ragione l’amico che glielo aveva raccomandato scrivendogli che 'alla culla di
lui hanno vegliato Grazie ed Eroi!'."
Julie si ricordò che a questo punto del
racconto sua madre fece un lungo sospiro prima di proseguire.
"Johann
era un ragazzone alto e con lunghi capelli biondi che incorniciavano un volto
dagli occhi dolci, ma volitivi. Quando si mise al pianoforte cominciò a
scoprirci regioni meravigliose: io venivo attirata in un cerchio sempre più
magico." Aggiungete a questo, un modo di suonare che faceva del pianoforte
un’orchestra dalle voci ora lamentose ora esaltanti di gioia.
Sua
madre le raccontò che talora Robert era scandalizzato, e lo scriveva, nell’immaginare
che taluno potesse concepire l’arte come un divertimento, come un appagamento
dei sensi o come un mezzo per sollecitarli, fino all’esaltazione. Secondo lui,
nulla poteva offendere tanto quanto la speculazione dell’ingegno. Era quello
che rimproverava a Rossini (che aveva conosciuto con la voce fatata della Adelina
Pasta alla Scala) e in parte anche a Mozart, per non parlare della musica
concertistica che si prestava al virtuosismo come quello dei vari Thalerg,
Hummel e Kalkbrenner. Egli li chiamava 'i Filistei'.
"È con questo spirito critico verso
i Filistei che tuo padre organizzò idealmente una “lega dei compagni di Davide”
in onore dei quali scrisse le Davidsbündlertänze
(Danze dei compagni di Davide)."
Fare lo scrittore ed il compositore non è
che rendesse molto, ma c’era “Clara Schumann”, ormai affermata concertista.
Quando fu chiamata a S.Pietroburgo, andarono insieme e lei suonò nel grande
salone dell’Ermitage anche il Concerto
per pianoforte e orchestra op. 54, composizione mirabile che Clara eseguì
con una straordinaria perizia pianistica, unita alla comprensione profonda del
mondo poetico di Robert Schumann. Questa composizione è intimamente legata a Clara,
perché i tutti e tre i movimenti del concerto sono costruiti con un tema che
deriva direttamente dalle lettere musicabili del suo nome: C, ossia do nella
grafia tedesca, H, ossia si, e A, ovvero la, ripetuto due volte. Ecco dunque il
tema di Clara: do-si-la-la!
“Non so se l’hanno capito – disse lui - ma
questi pubblici, sopportano molte cose: ti ricordi quando ti voltavo i fogli
durante l’esecuzione di un notturno di Chopin: metà del pubblico s’era già
sprofondata nel suo intimo. Cioè dormiva..."
Quella sera nel suo camerino giunse
insieme alle grandi corbeille dei principi e dei duchi, una sola umile rosa
rossa come quelle che gli esultanti spettatori russi offrono di persona ai
grandi interpreti, che li raccolgono, onorati, al bordo del palco. La rosa
rossa era accompagnata da un bigliettino che diceva: "Ti amo non solo
perché sei una grande artista, ma soprattutto perché sei buona".
Non sempre il suo tempo capì Schumann, ma
Schumann capì il suo tempo. Nelle sue sinfonie, nei suoi concerti per
pianoforte, o violino, o violoncello c’era l’anima di un visionario ed insieme
di un romantico. “Mi conosco bene - diceva tra sé - in me c’è Eusebio, la
passione, e Florestano, la ragione". E in effetti i suoi brani pianistici
soprattutto, ma anche sinfonici, sono un alternarsi di accordi energici, di
arpeggi tumultuosi e di momenti distesi, melodici quasi sognanti.
La musica più schumaniana, quella che con
estrema purezza esprime l’intimità, il palpito, lo slancio, le esitazioni del
romantico, Robert l’ha scritta per pianoforte, e per pianoforte e voce solista
(i celeberrimi Lieder). Anch’egli, come Schubert, predilige il pianoforte come
strumento espressivo completo, ed al tempo stesso, intimo e personalissimo.
Nelle sue 'compilation' - si direbbe oggi
- vi sono poi le espressioni tipicamente romantiche dell’indefinito, del
misterioso, il senso dell’infinito. Non c’è cosa od essere che per lui non
abbia un lato di occulto. Persino nei giuochi dei fanciulli, nelle fantasie e
nelle azioni dei bimbi, Schumann avverte la presenza di un’ombra, l’immanere di
una interrogazione, il velo di un enigma. Le Kinderszenen (Scene infantili) op.15 sono brevi, in alcuni casi
brevissime, composizioni pianistiche scritte da Robert Schumann nel febbraio del
1838. Lui stesso le definì "reminiscenze per adulti da parte di un
adulto"; non più musica per i bimbi dunque, bensì sui bimbi.
"Ed
aveva noi ad esempio - pensò Julie - ed era un buon padre. Mi ricordo quando ci
ha portato in gita sulle rive erbose del grande fiume, il Reno, e sono certa
che da quella grandiosità della natura sia nato il bellissimo inizio della sua III Sinfonia in mi bemolle maggiore op.
97, detta appunto 'Renana'.
Mamma
mi diceva che le anime, intorno a lui, ruotavano emettendo come un brusio, si
cercavano in colloqui non bene articolati, e questo loro destino, questo loro
interrogarsi, senza risposta, si ripeteva e ritornava, rinascendo senza pose da
una mortale stanchezza. Ma insieme con questi elementi che potremmo chiamare
decadenti e quasi femminei, scoppiava ad un tratto una baldanza marziale, una
pompa compiaciuta, una verve un po’ grossolana, ma energica e sanguigna, uno
scatto di humour che partiva bonario ed arrivava, non di rado, crudelmente: una
maestosità da Corale, un’ebrietà irrefrenabile e dolorosa. Mamma ricordava come
con tanto ardore siano stati scritti, tutti per pianoforte (forse proprio su
questo pianoforte), la sua opera Papillons
op.2, e poi i Phantasiestücke (Pezzi fantastici) op.12, gli Studi
Sinfonici op.13, Kreisleriana op.16,
ma anche con passione gridata, come nella Fantasia
op.17. Presentandogliela, papà le scrisse 'Il primo movimento è ciò che ho
scritto di più appassionato: è un grande grido disperato verso di te'. E poi
tanti, tanti Lieder: erano le canzoni di allora. Me ne ricordo uno su versi di
Heine che dicevano:
Ogni notte, in sogno, io ti vedo
E tu amorevole, mi saluti,
mentre, in lacrime, mi inchino
ai tuoi dolci piedi.
Mi guardi con grande tristezza
scuotendo la tua testa bionda;
dai tuoi occhi scorrono rapide
le perle del pianto.
Mi sussurri una parola dolce
mentre mi doni rami di cipresso.
Al mio risveglio, i rami sono svaniti,
la parola dimenticata.
Papà era fatto
così: aveva nel cuore solo e sempre la sua Clara. In un gruppo fantasmagorico
di ricordi e fantasie che chiamò Carnaval
(la sua opera 9) ricordò la ragazzina Wieck che gli correva dietro in un
piccolo brano che chiamò CHIARINA; ricordò anche il suo amico Chopin, facendo
una perfetta imitazione del suo stile, e il grande Paganini in un brano tutto
saltellato, dove sembra di vedere l’archetto del violinista che scintilla sulle
corde. Seguono ancora un brano misteriosissimo e pressoché immobile che chiamò
Sfingi, ed un altro di nome Estrella: quando però gli chiedevamo chi si celasse
dietro la maschera di Estrella egli taceva, e ci sorrideva dolcemente...
E
non dimenticò nei Davidsbündler op.6 i suoi fantastici amici di gioventù,
quelli che marciavano contro i filistei e fra essi c’era lui, Florestano, nome
che simbolizza la sua natura ardita ed appassionata ed insieme, Eusebio che è
la voce della sua natura dolcemente sognatrice e indulgente. Il suo ideale era
il personaggio di Maestro Raro, che cercava con grande fatica di mettere d’
accordo Eusebio e Florestano."
Julie ormai era persa nei ricordi, quelli che nelle
buone famiglie d’antan si trasmettono
dalla persone più anziane a quelle più giovani che le trasmettono a loro volta
(forse).
Si
ricordò che una volta a tavola sotto il lume a petrolio Papà raccontò che sua
madre (suo padre era già morto da qualche anno) voleva ad ogni costo che egli
facesse l’avvocato e lui allora le scrisse una lettera. "Volle leggerla a
noi suoi figli perché disse: 'siate liberi e sarete felici'. C’era tutto lui
con i suoi soprassalti di esaltazione e di rinuncia, di strazio e di gioia, con
le sue ansie di supremazia ideale ed i suoi ripiegamenti pudichi, la sua
voracità sentimentale e la sua delicatezza di spirito, e mi ricordo che alla
fine mamma lo ha abbracciato: 'ti amo, Robert', e noi abbiamo battuto le mani."
Julie sorrise. "Mamma mi diceva che quelli furono i bei momenti
della loro vita. Ma non durarono; mamma mi raccontò che una volta mentre lei
stava suonando a quattro mani con Johannes Brahms, papà si mise ad urlare, 'Nel
manicomio, no! nel manicomio, no!' e quando nella notte furono loro due soli le
disse che nei suoi pensieri c’era una confusione spaventosa e proprio il
manicomio gli appariva come un luogo destinato ad accoglierlo. 'Lo so che è
fantasia, ma è come se avessi dentro un tarlo, che a poco a poco mi rode il
cervello'."
Julie si portò la mano alla gola, ma il ricordo più doloroso era lì, ben
presente. "Quella notte, già spaventosa per la pioggia e i tuoni, tutti
gridavano perché papà era uscito di corsa, senza cappotto e senza ombrello. Lo
riportarono a casa due pescatori che lo avevano salvato dal fiume in cui si era
buttato, per farla finita.
La mamma si gettò su di lui a dirgli: warum?
perché? Noi bambini a piangere, e lui con gli occhi sbarrati, velati,
singolarmente quieto quando lo portarono via in quel manicomio che tanto
temeva.
Non mi ricordo se mi portarono a
trovarlo: i grandi credono che i bambini certe cose non le debbano sapere, ed invece
i bambini sanno.
Era circa la metà di luglio: il dott. Richarz
telegrafò a mia madre di accorrere 'se volete vedere Vostro marito per l’ultima
volta'. Mia madre mi raccontò che arrivò ad Endenich, con Brahms, il 27, verso
le sei di sera. 'Quando lo vidi - mi disse - ebbi l’impressione di trovarmi in
presenza di un altro. Ma Roberto mi riconobbe, sorrise. Mi prese dolcemente
alla vita, mi sfiorò la bocca con le sue labbra gelide e del suo balbettio
confuso mi sembrò di capire solo 'Chiarina, warum?'
Furono i medici a volere che io ripartissi - mia madre quasi
si scusava - e Brahms mi portò via'.
Mi hanno detto che il giorno dopo papà fu
travolto da convulsioni terribili, spasimò urlando, cospargendo il viso di
lacrime. All’alba del 29 luglio 1856 una pace sovrumana lo avvolse: gli occhi
tranquilli cercarono il cielo e le fronde degli alberi, visibili dalla finestra
spalancata. Morì nella notte, solo! Aveva quarant'anni!"
ANTONIO
SARTORIS
NOTA:
Clara Wieck Schumann, dopo la morte del
marito, riprese la sua carriera di brillante pianista, interrotta per dedicarsi
interamente alla malattia di lui. Si adoperò a promuovere le composizioni del
marito, la cui fama postuma si deve in buona parte a lei. Divenne inoltre la
prima insegnante donna al Conservatorio di Francoforte, dove introdusse nuove
tecniche per suonare il pianoforte, alcune delle quali utilizzate ancora oggi.
Con Schumann ebbe in totale otto figli. Provò il dolore di seppellire quattro
di essi, fra cui Julie nel 1872, e accompagnarne uno al manicomio.
Morì a Francoforte nel l896 a 77 anni.
P.B.
.
venerdì 20 gennaio 2017
Gigia, la cavalla di Nietzsche
GIGIA, OVVERO DELLA COMPASSIONE
Racconto di fantasia,
la
figlia sfrenata della libertà
Sono
una cavalla: mi chiamano Gigia forse da “grigia” che lo sono di mantello e di
criniera. Il posteggio mio e del mio padrone era l’angolo di p.zza Carlo
Alberto, a Torino. Lunghe attese di qualche coppia o di qualche famigliola,
perlopiù stranieri, da portare nei pochi luoghi monumentali della città:
Palazzo Reale, Palazzo Madama e la Mole che vista da sotto mi faceva anche un
po’ paura.
Nelle
attese, ruminando qualche carruba e battendo il ferro sulle indistruttibili
pietre di Luserna dell’acciottolato, è da lì che vedevo spesso passare, ad ora
fissa, un signore vestito di nero. Lo si notava perché aveva folti baffoni
sporgenti dal labbro superiore e l’occhio un po’ spiritato: lo qualificai
subito un professore.
Passava
ogni giorno, due volte, verso l'ora di pranzo e quella di cena. Passandomi
vicino mi diceva: "Ciao!" e finii per rispondergli, chinando la
testa. Lo seguii con la coda dell’occhio, così individuai, dove andava a
mangiare. Una piccola trattoria di via Bogino, “Da Giuseppe”, dove andava anche
il mio padrone.
Io,
ovviamente, stavo fuori, ma dalla finestrella a fianco della porta, dietro le
mezze tendine a quadretti bianchi e rossi, si vedeva dentro.
Il mio amico (ormai lo
consideravo tale) era là in un tavolino d’angolo, sempre solo con davanti un
bel bicchierone di birra.
Anche
il padrone della trattoria lo conoscevo bene: era un famoso cuoco in pensione.
Era stato l’ultimo cuoco di Casa Savoia quando Re Toju veniva ancora al
Castello di Racconigi: lì nacque l’erede Umberto che divenne il Re di Maggio ed
era un bel bambino biondo che io – puledra – portavo a spasso nel grande parco.
Lì Giuseppe aveva preparato il pranzo per l’ospite lo zar Nicola di Russia e la
sua corte. In tale occasione sfoderò la sua famosa ricetta del risotto al fondo
bruno, così buono, ma così buono, che la bellissima zarina Alessandra volle
portarsela a San Pietroburgo.
Il
Professore mangiava di buon appetito leccandosi letteralmente i baffoni che poi
si asciugava e pettinava con molta cura. Ho sentito io il Professore che
uscendo con un altro commensale diceva: “Vede, caro Carlo, non avevo idea della
superiorità degli italiani nell’arte della cucina fino a quando non ho
conosciuto questa trattoria. Non per niente ci troviamo vicini ai più famosi
allevamenti di bestiame: quelli della provincia di Cuneo! Oggi ad esempio ho
mangiato i più delicati ossobuchi, lo sa Iddio, come si dice in tedesco, quelli
della carne attorno all’osso, in cui si trova lo squisito midollo! Accompagnati
da broccoli preparati in maniera incredibile e per primo, tenerissimi
tenerissimi maccaroni. E per ogni pasto (con 10 centesimi di mancia per i
gentilissimi camerieri) pago un franco e 25. Meno di così?”
Dopo
quei pasti, il professore usciva all’aperto, tirava su un bel respiro della
fresca e ossigenata aria di Torino, un cenno a me e tornava nella sua camera
vicino al cielo.
Abitava in via Carlo Alberto n.6
dove al quarto piano i sigg.ri Davide e Candida Fino gli avevano affittato una
camera ammobiliata per 30 lire al mese, con servizio, compresa la pulizia degli
stivali.
Che
cosa facesse lì non l’ho mai saputo, ma sono sicura che non dovesse essere un
lavoro facile, lo vedevo stanco.
La
sera sedeva in uno splendido salone (si chiamava Baratti) per un piccolo
concerto, più che decoroso (pianoforte, 4 archi e 2 fiati), che a me arrivava
attutito. Gli portavano il suo giornale, il “Journal des Debats” e si gustava
un eccellente gelato: con la mancia, pagava 40 centesimi.
Adesso
vi racconto una cosa che non ho mai confidato a nessuno. Dovete sapere che la
mia stalla era proprio nel cortile dove si affacciava il retro della “Trattoria
da Giuseppe”. Un classico cortile delle case del vecchio centro di Torino con i
balconi a ringhiera ai vari piani, per la comunicazione tra le stanze. Si
affacciano sul cortile, per poter stendere il bucato celandolo al passeggio, e
per poter comunicare alla voce con le persone di sotto. Nel cortile si apriva
la rimessa dei cavalli, residuo della vecchia locanda con stallatico detta “Del
sollazzo gastrico”.
Ebbene una sera, saranno state le
nove, io ero già stata portata a stalla dal mio padrone, il professore invece
di uscire dalla solita porta della trattoria, quella che dava in via Bogino,
uscì dalla parte del cortile e venne a trovarmi.
Io lo riconobbi subito e gli feci
il solito cenno con il capo che lui considerò un invito: prese una vecchia
sedia impagliata e si sedette vicino a me. “Lo sai che non me ne va bene una
" incominciò a parlare con voce bassa, proprio quella con cui si fanno le
confidenze più intime.
Aveva ragione a fidarsi di me:
una cavalla, anche se pettegola, non potrà mai andare a spifferare le
confidenze ricevute. È vero che mia madre mi aveva raccontato di una “cavallina
storna” che con il suo nitrito aveva rivelato il nome dell’assassino del suo
padrone, ma ancora oggi, non sono sicura di quanto quel fatto fosse verità o
fantasia di poeta.
Comunque il professore si fidava
di me e quella sera si sfogò.
“Oggi ho ricevuto una lettera dalla mia
ragazza. Capirai subito che è un po’ strana: si chiama Lou, sì proprio così, ma
non è un uomo. Non ti stupire: avevamo realizzato una piccola comunità Lei, io
ed un amico, Paul Rée. Siamo stati insieme ed era ménage a trois. Non quello fisico, di sesso: non ricordo neanche
più se mi ha dato un bacio, ma le volevo bene. E allora prima di arrivare qui a
Torino le ho fatto dire da Paul che volevo sposarla.
Oggi mi ha scritto: 'Ma cosa hai
capito? Te l’avevo detto che il matrimonio è lontano dalla mia mente quanto il
sentimentalismo'.
“Lo
sapevo, lo sapevo – il professore alzò la voce - nessuno ha mai fatto alcunché
esclusivamente per gli altri. Tutti gli atti sono compiuti in favore di sé stessi, ogni servizio è prestato per servire sé stessi, ogni amore è rivolto
alla propria persona. L’oblatività non appartiene alla natura umana. Hai
capito: mi ha usato! Fin quando le sembrava di poter avere qualcosa da me
(forse anche partecipare alla fama che intravedeva in me) andava tutto bene,
quando si è trattato di dare lei qualcosa a me, se n’è andata. Ma anch’io sono 'Umano troppo Umano', io di questa donna
ho bisogno – proseguì - è di un’incredibile bellezza. Vedessi i suoi luminosi
occhi azzurri, le labbra piene e sensuali, i capelli biondo argento spazzolati
in su come una corona. Ha fatto da modella a Klimt. E poi è forte, sa vivere il
suo essere in questo nostro tempo tempestoso. Io invece sono venuto troppo
presto, non è ancora il mio tempo e nel libro, che sto progettando, tratterò
proprio questo tema: un profeta, Zarathustra, maestro di saggezza, decide di
illuminare l’umanità. Ma nessuno capisce le sue parole e lui ritorna al suo
silenzio”.
Il
Professore tacque, poi si alzò in piedi e disse: “In verità, in verità vi dico,
il mio tempo verrà!”.
A questo punto, nella penombra, vidi il Professore
con il fazzoletto in mano e dalla sua gran soffiata capii che stava piangendo.
Una
sera il padrone mi ha tirata fuori dalla stalla e mi ha detto: “Dobbiamo andare
a prendere il professore, sai quello sempre vestito di nero (non sapeva che io
lo conoscevo meglio di lui). Dobbiamo portarlo a teatro: questa sera al Regio
si dà la Carmen con quella famosa soprano spagnola”.
E dopo quella sera, ogni sera
abbiamo portato il Professore a vedere la Carmen, per cinque rappresentazioni,
tante quante furono in cartellone.
Anche il mio padrone si stupiva
di questa frequenza insolita sempre alla stessa opera. Ho sentito che ne
parlava con Giuseppe e lui gli diceva che il Professore, già fanatico della
musica del tedesco Wagner, aveva avuto un improvviso innamoramento per la
latinità di Carmen: lo accendeva il ritmo della musica. Ma io pensavo:
“cherchez la femme”.
Ed infatti una notte sentii bisbigliare in cortile
e nella penombra vidi il Professore tirare per mano una profumata signora –
ancheggiante alla spagnola - ed infilare la scala B, dove la signora Pautaso
affittava camere anche ad ore.
Hai
capito il Professore? In mancanza di Lou, l’aveva acceso Carmen.
Mi
ricordo che della Carmen avevo già sentito parlare quando un giorno, mi sono
visto salire in carrozzella il Professore ed un amico. “È un bel dì di maggio, andiamo
a fare una passeggiata”. Il Professore quel giorno era loquace: “Vedi amico mio
come è bello stare a Torino. Persino come paesaggio mi è più simpatica di
quello stupido pezzo di Riviera calcareo e brullo, al punto che non smetto di
arrabbiarmi per essermene sbarazzato così tardi. Qui i giorni si susseguono con
la stessa straordinaria perfezione e solarità. La splendida vegetazione arborea
di un verde sfavillante, il cielo e il grande fiume di un tenero azzurro.
Frutti, uva della più mora dolcezza - e meno cara che a Venezia! Trovo che qui
valga la pena di vivere sotto tutti gli aspetti. E poi Torino anche in fatto di
musica è la città più affidabile che io conosca. Tu, Richard, che sei un grande
musicista, dovevi esserci al concerto che ho ascoltato ieri sera al Teatro
Vittorio Emanuele in via Rossini 15. Ci sono 2.500 posti, tutti esauriti e un'acustica
magnifica. Fu eseguita grande musica: prima l’ouverture dell’Egmont, poi la Marcia
ungherese di Schubert (dai Moments musicaux) magnificamente adattata e
orchestrata da tuo suocero Franz Liszt. Subito dopo un pezzo solo per tutti gli
strumenti ad arco: dopo la quarta battuta ero in lacrime. Un’ispirazione
assolutamente celestiale e profonda, di chi? Di un musicista morto a Torino nel
1870, Rossaro (Carlo Rossaro, Crescentino
1827 – Torino 1878. Nda). Ti giuro, musica di primissimo ordine, di una bellezza
della forma e del cuore, che cambia tutte le mie idee sugli italiani. Domani
sera 'Carmen' è la quinta volta che l’ascolto: non è forse musica sublime?”.
L’amico
rispose: “Tu Friedrich, sei sempre esagerato: quando venivi a trovarmi a
Tribschen eri infatuato della mia musica. Mi salutavi come il tuo mistagogo,
sacerdote che ti iniziava nelle arcane dottrine dell’arte e della vita poi, improvvisamente,
non ti sei più fatto vivo. Torna a Bayreuth: vieni a vedere il nuovo teatro che
vi ho costruito e poi anche Cosima ti vuol rivedere”.
Il
Professore stette un po’ in silenzio poi alzando la voce e rosso in viso come
non l’avevo mai visto, quasi gridò: "Ho letto il tuo pamphlet, contro gli ebrei: 'Gli ebrei e la musica'. Lo so bene che è tuo – anche se pubblicato sotto
pseudomino - e lascia che te lo dica, ne sono indignato. Come puoi vuotare
addosso a musicisti come il sublime Mendelssohn tanto veleno? Mi hanno detto
che quando dirigi la sua musica ti metti i guanti. Vergogna: io so quanto male
faranno le Tue parole. No, non verrò più a Bayreuth e poi, lascia che te lo dica,
non ne posso più di tutto quel teutonico che metti nella tua musica:
Deutschland, sempre Deutschland!".
Un silenzio di gelo calò nella conversazione ed io capii che
era l’ora di tornare a casa. Quando si salutarono non si strinsero neppure la
mano.
Io
sono una cavalla qualunque, ma conosco anch’io i bei momenti della vita.
Mio nonno morì a Waterloo il 18
Giugno 1815 con l’ultima carica della Guardia di Napoleone e mia nonna – parlando con pardon - “trottava” a
Parigi.
Io sono nata in una stalla
borghese.
Mio padre portava a spasso il
comm. Giovanni Agnelli ed i suoi nipoti vestiti alla marinara nei viali del
Parco del Valentino. Io, ancora puledra, fui portata a Vinovo nell’ippodromo,
ma non ero tagliata per le corse e mi hanno fatto figliare con vari stalloni.
Qualche storia fu anche bella, e soprattutto, erano belli i miei puledri. Li
accarezzavo con lunghe linguate: chissà dove saranno finiti?
Poi mi hanno venduta a questo
padrone, che ancora mi usa, ma sono vecchia e la stanchezza che sento sempre di
più è certo l’annuncio della morte.
Un
giorno ho detto basta: il padrone aveva fatto salire a bordo cinque persone.
Cinque persone capite, che con lui a cassetta saranno stati cinquecento chili.
Ho provato a partire, ma non ce la facevo proprio, ed allora sapete cosa ha
fatto il padrone? Ha preso la frusta e me l’ha data sul groppone. Io tiravo,
tiravo, ma la carrozza non si muoveva ed allora giù botte.
In
quel momento passava il signore in nero, il Professore. Incredibile, ma bello,
si gettò piangendo al mio collo gridando “C’est moi qui l’ai tuée! Ah! Carmen!
Ma Carmen adorée!”. Tutti si fermarono e il padrone lasciò cadere la frusta:
“Ma chi è questo pazzo? Chiamate le guardie”. “È quel professore tedesco –
disse uno - che da qualche mese è venuto ad abitare al n.6 di via Carlo
Alberto: si chiama Federico Nietzsche”.
Vennero le guardie e lo portarono
via.
L’altro
giorno ho sentito qualcuno che diceva: “Il prof. Nietzsche è morto a Weimar, in
Germania, il 25 agosto 1900 all’età di 54 anni. Dopo il fatto del cavallo di
Torino, è stato sempre muto”.
Allora,
mi dissi, quelle sono state le sue ultime parole, e solo io sapevo perché.
Ci credete? Mi ha fatto pena.
ANTONIO SARTORIS
Cuneo, aprile 2015
sabato 30 luglio 2016
Il Papa va a Gaza?
IL PAPA VA A GAZA? (racconto fattuale)
ATTO I° - LA CAMPANA SUONA PER GAZA
Papa Francesco era sconvolto da quanto avveniva a Gaza.
“Come, è venuto qui da me, il presidente Perez, ha abbracciato quel buon uomo di Abu Mazen, hanno piantato insieme l’ulivo della Pace nel mio giardino, e dopo pochi giorni Israele distrugge quel boccone di terra dove dovevano stare rinchiusi più di un milione di uomini, donne, bambini. Ma qui non bisogna fidarsi proprio di nessuno. Da una mano ti sorrido per farti stare buono e dall’altra ti rubo quel poco che hai e se protesti, ti ammazzo”.
Papa Francesco era disperato: pregava, pregava, solo, nella sua cameretta di S. Marta, e la domenica dal suo alto balcone di Roma: “Fermatevi, per favore, basta bambini morti, Vi prego, vi prego…”.
Perez non si faceva neanche sentire mentre abbaiava forte Netanyau e ogni giorno aumentavano le vittime palestinesi: 100, 300 poi fino a 500 e oggi erano più di 1700 con tanti, tanti (300 e più) bambini innocenti di tutto, anche della scusa di lasciarsi usare come scudi umani.
E finalmente venne l’annuncio. Papa Francesco ha dichiarato: vado a Gaza.
La notizia ovviamente sconvolse il mondo e sollevò anche dure critiche all’interno del Vaticano stesso. Il Cardinale Tarcisio Bertone fu subito pronto a dire che il Papa non poteva sostituirsi a quanto l’Europa, l’America, tutte le Nazioni della Terra Unite non facevano. Bisognava attendere, mediare, sopire: in sostanza, stare a guardare e non fare niente. Altrimenti poteva anche succedere qualcosa di peggio…
Lui era stato Segretario di Stato, cioè Ministro degli Esteri del Vaticano e allievo di Papa Pacelli e quindi sapeva come comportarsi dinanzi alle grandi tragedie dell’umanità. Diceva che solo così, contrariamente a tanti regni, imperi, condottieri ed uomini politici, la Chiesa era sopravvissuta nei secoli. Quindi chiese un colloquio con il Papa.
“Santità, è ammirevole quanto state facendo per ottenere pace in quel tormentato lembo di terra che è anche la terra del Nostro Signore Gesù Cristo, ma ho notizie proprio dal Governo Israeliano, sono molto preoccupati per non essere sicuri di poter garantire alla Santità Vostra la sicurezza dovutavi. Per tanto che Gaza sia ormai tutta sotto il potere dell’esercito israeliano, non si può mai escludere un franco tiratore ed allora…”.
“Caro Tarcisio, allora? Vieni un po’ con me.” Papa Francesco prese per mano il Card. Bertone ed entrarono nella enorme basilica di S.Pietro. Regnava un solenne silenzio ed i due sacerdoti andarono nella cappella della Madonna della Colonna, all’estrema sinistra della navata centrale, alle spalle al baldacchino a tortiglione della tomba di S.Pietro. “Tu sai - chiese Papa Francesco – chi è sepolto sotto questo altare?” “Certo – rispose il Cardinale – Leone I, il nostro Leone Magno, morto nel 461 e sepolto qui, primo dopo S.Pietro”. “E allora guarda un po’ – riprese il Papa – qui nel marmo dell’Algardi: è rievocato l’incontro di questo Pontefice con Attila “il flagello di Dio” a Mantova (non qui a Roma) nel 452, dove il re degli Unni assistette atterrito all’apparizione degli Apostoli Pietro e Paolo evocati da Leone Magno, che in questo modo salvò Roma dalla devastazione.
Adesso capirai perché devo andare: non so se gli apostoli Pietro e Paolo vorranno di nuovo comparire, ma io alzerò le mani e mettendomi di mezzo a israeliani e palestinesi dirò “fermatevi in nome del vostro Dio” e sarà quel che sarà” Bertone gli baciò la mano e tacque. Una campana suonò.
Il giorno dopo Papa Francesco disse: “Domani parto, ma questa sera voglio salutarVi”. Fu come la notte della luna, quella in cui Papa Giovanni XXIII mandò la sua carezza ai bambini. Piazza S. Pietro era stracolma di gente, e non tutta era gente di Dio. Ma il senso di commozione per il dolore altrui e di solidarietà nel fare qualcosa per l’altro che soffre, saliva unitario da quella marea. Quando Papa Francesco apparve fu un solo enorme grido: “Vai, vai, e ritorna salvatore!” e tutte le campane di Roma, suonarono.
ATTO II° - L’ORA DEL PIANTO
“Santità, Santità, non parta più” un grido percorse i grandi corridoi delle stanze vaticane e giunse fino alle orecchie del Papa. “Non parta più, hanno raggiunto un accordo di tregua e Israele si ritira”.
Mentre il cardinale sventolava sotto gli occhi buoni del Papa il giornale che con titoli cubitali riportava la notizia, Francesco aveva gli occhi fissi su una foto che riportava il deserto di macerie a cui era ridotta Gaza. Gaza e i palestinesi sedati, morti. Israele ha ottenuto il silenzio, sì, ma quello dei cimiteri.
“Questo il risultato di quella impresa - gli disse Padre Jorge Hernandez, argentino, parroco a Gaza - Abbiamo ancora una volta potuto vedere che nella guerra non ci sono vincitori, ma perdono sempre tutti. Presto o tardi, in un modo o nell’altro, da una parte e dall’altra tutti pagano il prezzo della violenza e dell’odio che la violenza partorisce». Lo dirò all’Angelus – rispose Francesco - in Piazza S. Pietro, urbis et orbis, ma so che non basta.
Non è andato a Gaza, Francesco, ma a Redipuglia, sì!
"I numeri della prima guerra mondiale sono spaventosi - ha detto il Pontefice - si parla di circa 8 milioni di giovani soldati caduti e di circa 7 milioni di persone civili travolte. Questo ci fa capire quanto la guerra sia una pazzia, una pazzia della quale l’umanità non ha ancora imparato la lezione, perché dopo di essa ce n’è stata un’altra seconda, mondiale, e tante altre che ancora oggi sono in corso”.
“Ma quando impareremo noi questa lezione?” "L’odio è il male vengono sconfitti con il perdono e il bene. La risposta della guerra fa solo aumentare il male e la morte”.
"La guerra è una follia, è solo pianto".
ATTO III° - NOI
Lontano da Roma e da Gaza, vicino a me tre donne, ed io con loro siamo sconvolti da cosa sta avvenendo in Palestina e sentiamo il dovere di lanciare anche da Cuneo un appello contro la sordità e l’insensibilità verso il doloroso e ingiusto destino dei fratelli palestinesi, contro quell’«a me che importa?» scomunicato dal Papa e che alimenta lo spargimento di sangue. Ho scritto questo racconto che in modo fantastico si ispira a fatti veri, perché intendo porre a me ed alla gente, anche al Papa, una domanda sola: “Tu, come vivi?”.
ANTONIO SARTORIS
Cuneo, 23 ottobre 2014
(Questo racconto è stato inviato a Papa Francesco – Vaticano – Roma. Silenzio ! )
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