mercoledì 25 marzo 2020

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lunedì 18 giugno 2018

CHIARINA, racconto di fantasia, ma non troppo




ANTONIO SARTORIS





CHIARINA

Racconto di fantasia, ma non troppo


















A porta aperta
Quaderni di Casa Delfino n.8

2018 Edizioni Fondazione Casa Delfino onlus
C.so Nizza 2, 12100 Cuneo (Italia)
www.fondazionedelfino.it
E-mail: info@fondazionedelfino.it
Impaginazione: Paola Bosa
Stampato in proprio - I^ edizione maggio 2018




                                   Suonate sempre con anima; suonate non solo con le dita, ma anche con la testa e col cuore. Nulla di più grande si può compiere senza entusiasmo; non si è mai finito di imparare; la migliore cura contro la vanità e la presunzione è lo studio della storia della musica"
                                                         Robert Schumann
 





       Il castello di Passerano-Marmorito (un paesino piemontese in provincia di Asti) si eleva imponente e un po’ tetro sull'abitato di poche centinaia di anime. La sua attuale costruzione risale al Trecento, fu ampliata nei tre secoli successivi, ma la sua origine si attesta all'Alto Medioevo.
       Julie Schumann, terza figlia di Robert e Clara, era giunta in questo castello avendo sposato a Lichtental, presso Baden-Baden, il 22 settembre 1868, il conte Vittorio Amedeo Radicati di Marmorito.
       Quel giorno guardava il giardino che era triste del grigio dell’autunno. Si accorse che con il pensiero stava andando lontano ed allora girò lo sguardo all’interno della stanza calda del fuoco nel caminetto e dei velluti alle tende e alle poltrone. Troneggiava il grande pianoforte a coda dove aveva suonato sua madre, Clara Schumann,  che glielo regalò  quando era andata a trovarla. 
       Quel pianoforte era già in casa di suo nonno il prof. Wieck quando Clara studiava e poi lo portò con sé nelle case di Lipsia e di Dresda, dove era andata ad abitare con il suo Robert. Era un pianoforte che sapeva tutto dei coniugi Schumann. 
       Julie posò le mani su quel pianoforte, amico di sua madre, e ricordò quanto Lei le aveva raccontato:
       “Era un tiepido pomeriggio d’estate, un  ragazzone alto e massiccio, dagli occhi incantati sotto un bel ciuffo di capelli castani camminava con il suo lungo passo e parlava, parlava, lo sguardo fisso al cielo. Lui si chiamava Robert Schumann e chiamava me, poco più di una ragazzina, Chiarina. Ero diventata sua amica. Gli saltellavo dietro ed ogni tanto gli afferravo una manica perché non incespicasse nelle pietre del sentiero. Malgrado le mie precauzioni, a volte, faceva un capitombolo: ridevamo insieme e lui mi parlava della bellezza come forza morale; dell’arte come consolazione; dell’artista che opera nella certezza di avere con sé, da presso o da lungi, almeno un’anima bisognosa e desiderosa del suo messaggio.
       Era l’allievo prediletto di mio padre, il severo prof. Friedrick Wieck, grande pianista ed il più noto insegnante di Lipsia, e a lui queste passeggiate non piacevano per niente. Finì che, per tenermi lontana da lui, mi mandò a fare un riuscito e lungo giro di concerti nelle grandi capitali d’Europa, avevo solo sedici anni.
       Ma tornai, e la mamma mi disse 'È ora che entri nella nostra società e magari trovi un buon partito'.
       Al braccio di mio padre andai al gran ballo nel palazzo del principe Orloski e fu lì che vidi un giovanotto venirmi incontro e porgendomi una rosa disse 'Sono Robert Schumann, permettete questo ballo?'. Non mi riconobbe: ero diventata una donna. Ballai con lui l’Invito alla danza, superbamente scritto per pianoforte da Carl Maria von Weber, ma che ora suonava l’orchestra. Il valzer è un girotondo di voluttà intima ed estenuata, che io ballai, sfidando le occhiatacce di mia madre, allacciata a lui,  petto contro petto, alito contro alito. Eravamo di nuovo insieme. 
       Era bello ed elegante il mio Robert - ricordava mia madre con un sospiro - ma per i miei non era un buon partito. Era sempre in bolletta: mio padre mi raccontava che era giunto a mangiare solo patate, aveva venduto per vivere anche i suoi libri, ed era lui che doveva fargli qualche piccolo prestito. Il concertista che voleva diventare e per cui studiava e studiava, non poteva più diventarlo, perché a forza di esercizi di difficoltà trascendentale si era rovinato un dito. 
         Nonostante tante predizioni di sventura io volevo Lui. Fui costretta andare in Tribunale per liberarmi del veto di mio padre perché non avevo ancora la maggiore età di legge, ma la spuntai io e ci sposammo. 
       Abbiamo abitato prima a Lipsia all’ombra del grande Bach, poi a Dresda, per ritornare poi a Lipsia, anche per la nostalgia della famosa orchestra del Gewandhaus diretta dal suo amico Felix Mendelssohn. Avevamo una casetta piccola, stile Biedermeier, ma è lì che ebbi i miei otto figli (tu sei nata terza nel 1845).
       Purtroppo non ho potuto seguirvi molto perché dovevo girare mezza Europa per suonare come concertista e, senza falsa modestia, direi con notevole successo, lasciandovi affidati a Vostro padre che avendo rinunciato a fare il concertista per l’infortunio alla mano faceva il compositore ed il giornalista.   
        I suoi risultati economici non erano molti, ma lui si prendeva le sue soddisfazioni ed io ero contenta. Ha fondato il primo giornale di cose musicali il Neue Zeitschrift für Musik ed in epigrafe vi ha scritto le seguenti parole tratte dall’Enrico VIII di Shakespeare: 'Coloro che venissero qui per assistere ad uno spettacolo gaio e licenzioso, per intendere uno strepito di scudi cozzanti o per vedere un buffone in veste screziata, listata di giallo, rimarrebbero assai delusi nella loro attesa'. Così penso venga fatta l’arte. Con questo giornale e con queste idee si incominciava a parlare di lui in tutta la Germania. Un bel giorno è venuto alla nostra porta un bel giovane. 'Mi chiamo Johann Brahms' si presentò 'e vengo da Amburgo'. Robert lesse le sue composizioni e mi disse che aveva ragione l’amico che glielo aveva raccomandato scrivendogli che 'alla culla di lui hanno vegliato Grazie ed Eroi!'."
       Julie si ricordò che a questo punto del racconto sua madre fece un lungo sospiro prima di proseguire.
"Johann era un ragazzone alto e con lunghi capelli biondi che incorniciavano un volto dagli occhi dolci, ma volitivi. Quando si mise al pianoforte cominciò a scoprirci regioni meravigliose: io venivo attirata in un cerchio sempre più magico." Aggiungete a questo, un modo di suonare che faceva del pianoforte un’orchestra dalle voci ora lamentose ora esaltanti di gioia.
       Sua madre le raccontò che talora Robert era scandalizzato, e lo scriveva, nell’immaginare che taluno potesse concepire l’arte come un divertimento, come un appagamento dei sensi o come un mezzo per sollecitarli, fino all’esaltazione. Secondo lui, nulla poteva offendere tanto quanto la speculazione dell’ingegno. Era quello che rimproverava a Rossini (che aveva conosciuto con la voce fatata della Adelina Pasta alla Scala) e in parte anche a Mozart, per non parlare della musica concertistica che si prestava al virtuosismo come quello dei vari Thalerg, Hummel e Kalkbrenner. Egli li chiamava 'i Filistei'.
       "È con questo spirito critico verso i Filistei che tuo padre organizzò idealmente una “lega dei compagni di Davide” in onore dei quali scrisse le Davidsbündlertänze (Danze dei compagni di Davide)."
       Fare lo scrittore ed il compositore non è che rendesse molto, ma c’era “Clara Schumann”, ormai affermata concertista. Quando fu chiamata a S.Pietroburgo, andarono insieme e lei suonò nel grande salone dell’Ermitage anche il Concerto per pianoforte e orchestra op. 54, composizione mirabile che Clara eseguì con una straordinaria perizia pianistica, unita alla comprensione profonda del mondo poetico di Robert Schumann. Questa composizione è intimamente legata a Clara, perché i tutti e tre i movimenti del concerto sono costruiti con un tema che deriva direttamente dalle lettere musicabili del suo nome: C, ossia do nella grafia tedesca, H, ossia si, e A, ovvero la, ripetuto due volte. Ecco dunque il tema di Clara: do-si-la-la!
 “Non so se l’hanno capito – disse lui - ma questi pubblici, sopportano molte cose: ti ricordi quando ti voltavo i fogli durante l’esecuzione di un notturno di Chopin: metà del pubblico s’era già sprofondata nel suo intimo. Cioè dormiva..."
       Quella sera nel suo camerino giunse insieme alle grandi corbeille dei principi e dei duchi, una sola umile rosa rossa come quelle che gli esultanti spettatori russi offrono di persona ai grandi interpreti, che li raccolgono, onorati, al bordo del palco. La rosa rossa era accompagnata da un bigliettino che diceva: "Ti amo non solo perché sei una grande artista, ma soprattutto perché sei buona".
       Non sempre il suo tempo capì Schumann, ma Schumann capì il suo tempo. Nelle sue sinfonie, nei suoi concerti per pianoforte, o violino, o violoncello c’era l’anima di un visionario ed insieme di un romantico. “Mi conosco bene - diceva tra sé - in me c’è Eusebio, la passione, e Florestano, la ragione". E in effetti i suoi brani pianistici soprattutto, ma anche sinfonici, sono un alternarsi di accordi energici, di arpeggi tumultuosi e di momenti distesi, melodici quasi sognanti. 
       La musica più schumaniana, quella che con estrema purezza esprime l’intimità, il palpito, lo slancio, le esitazioni del romantico, Robert l’ha scritta per pianoforte, e per pianoforte e voce solista (i celeberrimi Lieder). Anch’egli, come Schubert, predilige il pianoforte come strumento espressivo completo, ed al tempo stesso, intimo e personalissimo.
       Nelle sue 'compilation' - si direbbe oggi - vi sono poi le espressioni tipicamente romantiche dell’indefinito, del misterioso, il senso dell’infinito. Non c’è cosa od essere che per lui non abbia un lato di occulto. Persino nei giuochi dei fanciulli, nelle fantasie e nelle azioni dei bimbi, Schumann avverte la presenza di un’ombra, l’immanere di una interrogazione, il velo di un enigma. Le Kinderszenen (Scene infantili) op.15 sono brevi, in alcuni casi brevissime, composizioni pianistiche scritte da Robert Schumann nel febbraio del 1838. Lui stesso le definì "reminiscenze per adulti da parte di un adulto"; non più musica per i bimbi dunque, bensì sui bimbi.
"Ed aveva noi ad esempio - pensò Julie - ed era un buon padre. Mi ricordo quando ci ha portato in gita sulle rive erbose del grande fiume, il Reno, e sono certa che da quella grandiosità della natura sia nato il bellissimo inizio della sua III Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 97, detta appunto 'Renana'. 
       Mamma mi diceva che le anime, intorno a lui, ruotavano emettendo come un brusio, si cercavano in colloqui non bene articolati, e questo loro destino, questo loro interrogarsi, senza risposta, si ripeteva e ritornava, rinascendo senza pose da una mortale stanchezza. Ma insieme con questi elementi che potremmo chiamare decadenti e quasi femminei, scoppiava ad un tratto una baldanza marziale, una pompa compiaciuta, una verve un po’ grossolana, ma energica e sanguigna, uno scatto di humour che partiva bonario ed arrivava, non di rado, crudelmente: una maestosità da Corale, un’ebrietà irrefrenabile e dolorosa. Mamma ricordava come con tanto ardore siano stati scritti, tutti per pianoforte (forse proprio su questo pianoforte), la sua opera Papillons op.2, e poi i Phantasiestücke (Pezzi fantastici) op.12,  gli Studi Sinfonici op.13, Kreisleriana op.16, ma anche con passione gridata, come nella Fantasia op.17. Presentandogliela, papà le scrisse 'Il primo movimento è ciò che ho scritto di più appassionato: è un grande grido disperato verso di te'. E poi tanti, tanti Lieder: erano le canzoni di allora. Me ne ricordo uno su versi di Heine che dicevano:
Ogni notte, in sogno, io ti vedo
E tu amorevole, mi saluti,
mentre, in lacrime, mi inchino
ai tuoi dolci piedi.
Mi guardi con grande tristezza
scuotendo la tua testa bionda;
dai tuoi occhi scorrono rapide
le perle del pianto.
Mi sussurri una parola dolce
mentre mi doni rami di cipresso.
Al mio risveglio, i rami sono svaniti,
la parola dimenticata.
        Papà era fatto così: aveva nel cuore solo e sempre la sua Clara. In un gruppo fantasmagorico di ricordi e fantasie che chiamò Carnaval (la sua opera 9) ricordò la ragazzina Wieck che gli correva dietro in un piccolo brano che chiamò CHIARINA; ricordò anche il suo amico Chopin, facendo una perfetta imitazione del suo stile, e il grande Paganini in un brano tutto saltellato, dove sembra di vedere l’archetto del violinista che scintilla sulle corde. Seguono ancora un brano misteriosissimo e pressoché immobile che chiamò Sfingi, ed un altro di nome Estrella: quando però gli chiedevamo chi si celasse dietro la maschera di Estrella egli taceva, e ci sorrideva dolcemente...

       E non dimenticò nei Davidsbündler op.6 i suoi fantastici amici di gioventù, quelli che marciavano contro i filistei e fra essi c’era lui, Florestano, nome che simbolizza la sua natura ardita ed appassionata ed insieme, Eusebio che è la voce della sua natura dolcemente sognatrice e indulgente. Il suo ideale era il personaggio di Maestro Raro, che cercava con grande fatica di mettere d’ accordo Eusebio e Florestano."
  
       Julie ormai era persa nei ricordi, quelli che nelle buone famiglie d’antan si trasmettono dalla persone più anziane a quelle più giovani che le trasmettono a loro volta (forse).
Si ricordò che una volta a tavola sotto il lume a petrolio Papà raccontò che sua madre (suo padre era già morto da qualche anno) voleva ad ogni costo che egli facesse l’avvocato e lui allora le scrisse una lettera. "Volle leggerla a noi suoi figli perché disse: 'siate liberi e sarete felici'. C’era tutto lui con i suoi soprassalti di esaltazione e di rinuncia, di strazio e di gioia, con le sue ansie di supremazia ideale ed i suoi ripiegamenti pudichi, la sua voracità sentimentale e la sua delicatezza di spirito, e mi ricordo che alla fine mamma lo ha abbracciato: 'ti amo, Robert', e noi abbiamo battuto le mani."
         Julie sorrise. "Mamma mi diceva che quelli furono i bei momenti della loro vita. Ma non durarono; mamma mi raccontò che una volta mentre lei stava suonando a quattro mani con Johannes Brahms, papà si mise ad urlare, 'Nel manicomio, no! nel manicomio, no!' e quando nella notte furono loro due soli le disse che nei suoi pensieri c’era una confusione spaventosa e proprio il manicomio gli appariva come un luogo destinato ad accoglierlo. 'Lo so che è fantasia, ma è come se avessi dentro un tarlo, che a poco a poco mi rode il cervello'."
           Julie si portò la mano alla gola, ma il ricordo più doloroso era lì, ben presente. "Quella notte, già spaventosa per la pioggia e i tuoni, tutti gridavano perché papà era uscito di corsa, senza cappotto e senza ombrello. Lo riportarono a casa due pescatori che lo avevano salvato dal fiume in cui si era buttato, per farla finita. 
       La mamma si gettò su di lui a dirgli: warum? perché? Noi bambini a piangere, e lui con gli occhi sbarrati, velati, singolarmente quieto quando lo portarono via in quel manicomio che tanto temeva.
       Non mi ricordo se mi portarono a trovarlo: i grandi credono che i bambini certe cose non le debbano sapere, ed invece i bambini sanno.
       Era circa la metà di luglio: il dott. Richarz telegrafò a mia madre di accorrere 'se volete vedere Vostro marito per l’ultima volta'. Mia madre mi raccontò che arrivò ad Endenich, con Brahms, il 27, verso le sei di sera. 'Quando lo vidi - mi disse - ebbi l’impressione di trovarmi in presenza di un altro. Ma Roberto mi riconobbe, sorrise. Mi prese dolcemente alla vita, mi sfiorò la bocca con le sue labbra gelide e del suo balbettio confuso mi sembrò di capire solo 'Chiarina, warum?'   
       Furono i medici  a volere che io ripartissi - mia madre quasi si scusava - e Brahms mi portò via'.
       Mi hanno detto che il giorno dopo papà fu travolto da convulsioni terribili, spasimò urlando, cospargendo il viso di lacrime. All’alba del 29 luglio 1856 una pace sovrumana lo avvolse: gli occhi tranquilli cercarono il cielo e le fronde degli alberi, visibili dalla finestra spalancata. Morì nella notte, solo! Aveva quarant'anni!"
       ANTONIO SARTORIS







NOTA:
Clara Wieck Schumann, dopo la morte del marito, riprese la sua carriera di brillante pianista, interrotta per dedicarsi interamente alla malattia di lui. Si adoperò a promuovere le composizioni del marito, la cui fama postuma si deve in buona parte a lei. Divenne inoltre la prima insegnante donna al Conservatorio di Francoforte, dove introdusse nuove tecniche per suonare il pianoforte, alcune delle quali utilizzate ancora oggi. Con Schumann ebbe in totale otto figli. Provò il dolore di seppellire quattro di essi, fra cui Julie nel 1872, e accompagnarne uno al manicomio.
Morì a Francoforte nel l896 a 77 anni.
P.B.































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venerdì 20 gennaio 2017

Gigia, la cavalla di Nietzsche


 GIGIA, OVVERO DELLA COMPASSIONE


                                                                                        
                                                                                           Racconto di fantasia,

                                                                                                                la figlia sfrenata della libertà



      Sono una cavalla: mi chiamano Gigia forse da “grigia” che lo sono di mantello e di criniera. Il posteggio mio e del mio padrone era l’angolo di p.zza Carlo Alberto, a Torino. Lunghe attese di qualche coppia o di qualche famigliola, perlopiù stranieri, da portare nei pochi luoghi monumentali della città: Palazzo Reale, Palazzo Madama e la Mole che vista da sotto mi faceva anche un po’ paura.

      Nelle attese, ruminando qualche carruba e battendo il ferro sulle indistruttibili pietre di Luserna dell’acciottolato, è da lì che vedevo spesso passare, ad ora fissa, un signore vestito di nero. Lo si notava perché aveva folti baffoni sporgenti dal labbro superiore e l’occhio un po’ spiritato: lo qualificai subito un professore.

      Passava ogni giorno, due volte, verso l'ora di pranzo e quella di cena. Passandomi vicino mi diceva: "Ciao!" e finii per rispondergli, chinando la testa. Lo seguii con la coda dell’occhio, così individuai, dove andava a mangiare. Una piccola trattoria di via Bogino, “Da Giuseppe”, dove andava anche il mio padrone.

      Io, ovviamente, stavo fuori, ma dalla finestrella a fianco della porta, dietro le mezze tendine a quadretti bianchi e rossi, si vedeva dentro.

Il mio amico (ormai lo consideravo tale) era là in un tavolino d’angolo, sempre solo con davanti un bel bicchierone di birra.

      Anche il padrone della trattoria lo conoscevo bene: era un famoso cuoco in pensione. Era stato l’ultimo cuoco di Casa Savoia quando Re Toju veniva ancora al Castello di Racconigi: lì nacque l’erede Umberto che divenne il Re di Maggio ed era un bel bambino biondo che io – puledra – portavo a spasso nel grande parco. Lì Giuseppe aveva preparato il pranzo per l’ospite lo zar Nicola di Russia e la sua corte. In tale occasione sfoderò la sua famosa ricetta del risotto al fondo bruno, così buono, ma così buono, che la bellissima zarina Alessandra volle portarsela a San Pietroburgo.

      Il Professore mangiava di buon appetito leccandosi letteralmente i baffoni che poi si asciugava e pettinava con molta cura. Ho sentito io il Professore che uscendo con un altro commensale diceva: “Vede, caro Carlo, non avevo idea della superiorità degli italiani nell’arte della cucina fino a quando non ho conosciuto questa trattoria. Non per niente ci troviamo vicini ai più famosi allevamenti di bestiame: quelli della provincia di Cuneo! Oggi ad esempio ho mangiato i più delicati ossobuchi, lo sa Iddio, come si dice in tedesco, quelli della carne attorno all’osso, in cui si trova lo squisito midollo! Accompagnati da broccoli preparati in maniera incredibile e per primo, tenerissimi tenerissimi maccaroni. E per ogni pasto (con 10 centesimi di mancia per i gentilissimi camerieri) pago un franco e 25. Meno di così?”

      Dopo quei pasti, il professore usciva all’aperto, tirava su un bel respiro della fresca e ossigenata aria di Torino, un cenno a me e tornava nella sua camera vicino al cielo.

Abitava in via Carlo Alberto n.6 dove al quarto piano i sigg.ri Davide e Candida Fino gli avevano affittato una camera ammobiliata per 30 lire al mese, con servizio, compresa la pulizia degli stivali.

      Che cosa facesse lì non l’ho mai saputo, ma sono sicura che non dovesse essere un lavoro facile, lo vedevo stanco.

      La sera sedeva in uno splendido salone (si chiamava Baratti) per un piccolo concerto, più che decoroso (pianoforte, 4 archi e 2 fiati), che a me arrivava attutito. Gli portavano il suo giornale, il “Journal des Debats” e si gustava un eccellente gelato: con la mancia, pagava 40 centesimi.

      Adesso vi racconto una cosa che non ho mai confidato a nessuno. Dovete sapere che la mia stalla era proprio nel cortile dove si affacciava il retro della “Trattoria da Giuseppe”. Un classico cortile delle case del vecchio centro di Torino con i balconi a ringhiera ai vari piani, per la comunicazione tra le stanze. Si affacciano sul cortile, per poter stendere il bucato celandolo al passeggio, e per poter comunicare alla voce con le persone di sotto. Nel cortile si apriva la rimessa dei cavalli, residuo della vecchia locanda con stallatico detta “Del sollazzo gastrico”.

Ebbene una sera, saranno state le nove, io ero già stata portata a stalla dal mio padrone, il professore invece di uscire dalla solita porta della trattoria, quella che dava in via Bogino, uscì dalla parte del cortile e venne a trovarmi.

Io lo riconobbi subito e gli feci il solito cenno con il capo che lui considerò un invito: prese una vecchia sedia impagliata e si sedette vicino a me. “Lo sai che non me ne va bene una " incominciò a parlare con voce bassa, proprio quella con cui si fanno le confidenze più intime.

Aveva ragione a fidarsi di me: una cavalla, anche se pettegola, non potrà mai andare a spifferare le confidenze ricevute. È vero che mia madre mi aveva raccontato di una “cavallina storna” che con il suo nitrito aveva rivelato il nome dell’assassino del suo padrone, ma ancora oggi, non sono sicura di quanto quel fatto fosse verità o fantasia di poeta.

Comunque il professore si fidava di me e quella sera si sfogò.

       “Oggi ho ricevuto una lettera dalla mia ragazza. Capirai subito che è un po’ strana: si chiama Lou, sì proprio così, ma non è un uomo. Non ti stupire: avevamo realizzato una piccola comunità Lei, io ed un amico, Paul Rée. Siamo stati insieme ed era ménage a trois. Non quello fisico, di sesso: non ricordo neanche più se mi ha dato un bacio, ma le volevo bene. E allora prima di arrivare qui a Torino le ho fatto dire da Paul che volevo sposarla.

Oggi mi ha scritto: 'Ma cosa hai capito? Te l’avevo detto che il matrimonio è lontano dalla mia mente quanto il sentimentalismo'.

      “Lo sapevo, lo sapevo – il professore alzò la voce - nessuno ha mai fatto alcunché esclusivamente per gli altri. Tutti gli atti sono compiuti in favore di sé stessi, ogni servizio è prestato per servire sé stessi, ogni amore è rivolto alla propria persona. L’oblatività non appartiene alla natura umana. Hai capito: mi ha usato! Fin quando le sembrava di poter avere qualcosa da me (forse anche partecipare alla fama che intravedeva in me) andava tutto bene, quando si è trattato di dare lei qualcosa a me, se n’è andata. Ma anch’io sono 'Umano troppo Umano', io di questa donna ho bisogno – proseguì - è di un’incredibile bellezza. Vedessi i suoi luminosi occhi azzurri, le labbra piene e sensuali, i capelli biondo argento spazzolati in su come una corona. Ha fatto da modella a Klimt. E poi è forte, sa vivere il suo essere in questo nostro tempo tempestoso. Io invece sono venuto troppo presto, non è ancora il mio tempo e nel libro, che sto progettando, tratterò proprio questo tema: un profeta, Zarathustra, maestro di saggezza, decide di illuminare l’umanità. Ma nessuno capisce le sue parole e lui ritorna al suo silenzio”.

      Il Professore tacque, poi si alzò in piedi e disse: “In verità, in verità vi dico, il mio tempo verrà!”.

 A questo punto, nella penombra, vidi il Professore con il fazzoletto in mano e dalla sua gran soffiata capii che stava piangendo.

      Una sera il padrone mi ha tirata fuori dalla stalla e mi ha detto: “Dobbiamo andare a prendere il professore, sai quello sempre vestito di nero (non sapeva che io lo conoscevo meglio di lui). Dobbiamo portarlo a teatro: questa sera al Regio si dà la Carmen con quella famosa soprano spagnola”.

E dopo quella sera, ogni sera abbiamo portato il Professore a vedere la Carmen, per cinque rappresentazioni, tante quante furono in cartellone.

Anche il mio padrone si stupiva di questa frequenza insolita sempre alla stessa opera. Ho sentito che ne parlava con Giuseppe e lui gli diceva che il Professore, già fanatico della musica del tedesco Wagner, aveva avuto un improvviso innamoramento per la latinità di Carmen: lo accendeva il ritmo della musica. Ma io pensavo: “cherchez la femme”.

 Ed infatti una notte sentii bisbigliare in cortile e nella penombra vidi il Professore tirare per mano una profumata signora – ancheggiante alla spagnola - ed infilare la scala B, dove la signora Pautaso affittava camere anche ad ore.

      Hai capito il Professore? In mancanza di Lou, l’aveva acceso Carmen.

      Mi ricordo che della Carmen avevo già sentito parlare quando un giorno, mi sono visto salire in carrozzella il Professore ed un amico. “È un bel dì di maggio, andiamo a fare una passeggiata”. Il Professore quel giorno era loquace: “Vedi amico mio come è bello stare a Torino. Persino come paesaggio mi è più simpatica di quello stupido pezzo di Riviera calcareo e brullo, al punto che non smetto di arrabbiarmi per essermene sbarazzato così tardi. Qui i giorni si susseguono con la stessa straordinaria perfezione e solarità. La splendida vegetazione arborea di un verde sfavillante, il cielo e il grande fiume di un tenero azzurro. Frutti, uva della più mora dolcezza - e meno cara che a Venezia! Trovo che qui valga la pena di vivere sotto tutti gli aspetti. E poi Torino anche in fatto di musica è la città più affidabile che io conosca. Tu, Richard, che sei un grande musicista, dovevi esserci al concerto che ho ascoltato ieri sera al Teatro Vittorio Emanuele in via Rossini 15. Ci sono 2.500 posti, tutti esauriti e un'acustica magnifica. Fu eseguita grande musica: prima l’ouverture dell’Egmont, poi la Marcia ungherese di Schubert (dai Moments musicaux) magnificamente adattata e orchestrata da tuo suocero Franz Liszt. Subito dopo un pezzo solo per tutti gli strumenti ad arco: dopo la quarta battuta ero in lacrime. Un’ispirazione assolutamente celestiale e profonda, di chi? Di un musicista morto a Torino nel 1870, Rossaro (Carlo Rossaro, Crescentino 1827 – Torino 1878. Nda). Ti giuro, musica di primissimo ordine, di una bellezza della forma e del cuore, che cambia tutte le mie idee sugli italiani. Domani sera 'Carmen' è la quinta volta che l’ascolto: non è forse musica sublime?”.

      L’amico rispose: “Tu Friedrich, sei sempre esagerato: quando venivi a trovarmi a Tribschen eri infatuato della mia musica. Mi salutavi come il tuo mistagogo, sacerdote che ti iniziava nelle arcane dottrine dell’arte e della vita poi, improvvisamente, non ti sei più fatto vivo. Torna a Bayreuth: vieni a vedere il nuovo teatro che vi ho costruito e poi anche Cosima ti vuol rivedere”.

      Il Professore stette un po’ in silenzio poi alzando la voce e rosso in viso come non l’avevo mai visto, quasi gridò: "Ho letto il tuo pamphlet, contro gli ebrei: 'Gli ebrei e la musica'. Lo so bene che è tuo – anche se pubblicato sotto pseudomino - e lascia che te lo dica, ne sono indignato. Come puoi vuotare addosso a musicisti come il sublime Mendelssohn tanto veleno? Mi hanno detto che quando dirigi la sua musica ti metti i guanti. Vergogna: io so quanto male faranno le Tue parole. No, non verrò più a Bayreuth e poi, lascia che te lo dica, non ne posso più di tutto quel teutonico che metti nella tua musica: Deutschland, sempre Deutschland!".

      Un silenzio di gelo calò nella conversazione ed io capii che era l’ora di tornare a casa. Quando si salutarono non si strinsero neppure la mano.



      Io sono una cavalla qualunque, ma conosco anch’io i bei momenti della vita.

Mio nonno morì a Waterloo il 18 Giugno 1815 con l’ultima carica della Guardia di Napoleone e mia nonna – parlando con pardon - “trottava” a Parigi.

Io sono nata in una stalla borghese.

Mio padre portava a spasso il comm. Giovanni Agnelli ed i suoi nipoti vestiti alla marinara nei viali del Parco del Valentino. Io, ancora puledra, fui portata a Vinovo nell’ippodromo, ma non ero tagliata per le corse e mi hanno fatto figliare con vari stalloni. Qualche storia fu anche bella, e soprattutto, erano belli i miei puledri. Li accarezzavo con lunghe linguate: chissà dove saranno finiti?

Poi mi hanno venduta a questo padrone, che ancora mi usa, ma sono vecchia e la stanchezza che sento sempre di più è certo l’annuncio della morte.

      Un giorno ho detto basta: il padrone aveva fatto salire a bordo cinque persone. Cinque persone capite, che con lui a cassetta saranno stati cinquecento chili. Ho provato a partire, ma non ce la facevo proprio, ed allora sapete cosa ha fatto il padrone? Ha preso la frusta e me l’ha data sul groppone. Io tiravo, tiravo, ma la carrozza non si muoveva ed allora giù botte.

      In quel momento passava il signore in nero, il Professore. Incredibile, ma bello, si gettò piangendo al mio collo gridando “C’est moi qui l’ai tuée! Ah! Carmen! Ma Carmen adorée!”. Tutti si fermarono e il padrone lasciò cadere la frusta: “Ma chi è questo pazzo? Chiamate le guardie”. “È quel professore tedesco – disse uno - che da qualche mese è venuto ad abitare al n.6 di via Carlo Alberto: si chiama Federico Nietzsche”.

Vennero le guardie e lo portarono via.

      L’altro giorno ho sentito qualcuno che diceva: “Il prof. Nietzsche è morto a Weimar, in Germania, il 25 agosto 1900 all’età di 54 anni. Dopo il fatto del cavallo di Torino, è stato sempre muto”.

      Allora, mi dissi, quelle sono state le sue ultime parole, e solo io sapevo perché.

Ci credete? Mi ha fatto pena.

                                             
                
                                                            ANTONIO SARTORIS



Cuneo, aprile 2015



sabato 30 luglio 2016

Il Papa va a Gaza?


IL PAPA VA A GAZA?    (racconto fattuale) 

ATTO I°  -  LA CAMPANA SUONA PER GAZA 

     Papa Francesco era sconvolto da quanto avveniva a Gaza.
“Come, è venuto qui da me, il presidente Perez, ha abbracciato quel buon uomo di Abu Mazen, hanno piantato insieme l’ulivo della Pace nel mio giardino, e dopo pochi giorni Israele distrugge quel boccone di terra dove dovevano stare rinchiusi più di un milione di uomini, donne, bambini. Ma qui non bisogna fidarsi proprio di nessuno. Da una mano ti sorrido per farti stare buono e dall’altra ti rubo quel poco che hai e se protesti, ti ammazzo”.
    Papa Francesco era disperato: pregava, pregava, solo, nella sua cameretta di S. Marta, e la domenica dal suo alto balcone di Roma: “Fermatevi, per favore, basta bambini morti, Vi prego, vi prego…”.
Perez non si faceva neanche sentire mentre abbaiava forte Netanyau e ogni giorno aumentavano le vittime palestinesi: 100, 300 poi fino a 500 e oggi erano più di 1700 con tanti, tanti (300 e più) bambini innocenti di tutto, anche della scusa di lasciarsi usare come scudi umani.  
     E finalmente venne l’annuncio. Papa Francesco ha dichiarato: vado a Gaza.
      La notizia ovviamente sconvolse il mondo e sollevò anche dure critiche all’interno del Vaticano stesso. Il Cardinale Tarcisio Bertone fu subito pronto a dire che il Papa non poteva sostituirsi a quanto l’Europa, l’America, tutte le Nazioni della Terra Unite non facevano. Bisognava attendere, mediare, sopire: in sostanza, stare a guardare e non fare niente. Altrimenti poteva anche succedere qualcosa di peggio…
    Lui era stato Segretario di Stato, cioè Ministro degli Esteri del Vaticano e allievo di Papa Pacelli e quindi sapeva come comportarsi dinanzi alle grandi tragedie dell’umanità. Diceva che solo così, contrariamente a tanti regni, imperi, condottieri ed uomini politici, la Chiesa era sopravvissuta nei secoli. Quindi chiese un colloquio con il Papa.
    “Santità, è ammirevole quanto state facendo per ottenere pace in quel tormentato lembo di terra che è anche la terra del Nostro Signore Gesù Cristo, ma ho notizie proprio dal Governo Israeliano, sono molto preoccupati per non essere sicuri di poter garantire alla Santità Vostra la sicurezza dovutavi. Per tanto che Gaza sia ormai tutta sotto il potere dell’esercito israeliano, non si può mai escludere un franco tiratore ed allora…”.
    “Caro Tarcisio, allora? Vieni un po’ con me.” Papa Francesco prese per mano il Card. Bertone ed entrarono nella enorme basilica di S.Pietro. Regnava un solenne silenzio ed i due sacerdoti andarono nella cappella della Madonna della Colonna, all’estrema sinistra della navata centrale, alle spalle al baldacchino a tortiglione della tomba di S.Pietro. “Tu sai - chiese Papa Francesco – chi è sepolto sotto questo altare?” “Certo – rispose il Cardinale – Leone I, il nostro Leone Magno, morto nel 461 e sepolto qui, primo dopo S.Pietro”. “E allora guarda un po’ – riprese il Papa – qui nel marmo  dell’Algardi: è rievocato l’incontro di questo Pontefice con Attila “il flagello di Dio” a Mantova (non qui a Roma) nel 452, dove il re degli Unni assistette atterrito all’apparizione degli Apostoli Pietro e Paolo evocati da Leone Magno, che in questo modo salvò Roma dalla devastazione.
Adesso capirai perché devo andare: non so se gli apostoli Pietro e Paolo vorranno di nuovo comparire, ma io alzerò le mani e mettendomi di mezzo a israeliani e palestinesi dirò “fermatevi in nome del vostro Dio” e sarà quel che sarà” Bertone gli baciò la mano e tacque. Una campana suonò.
Il giorno dopo Papa Francesco disse: “Domani parto, ma questa sera voglio salutarVi”. Fu come la notte della luna, quella in cui Papa Giovanni XXIII mandò la sua carezza ai bambini. Piazza S. Pietro era stracolma di gente, e non tutta era gente di Dio. Ma il senso di commozione per il dolore altrui e di solidarietà nel fare qualcosa per l’altro che soffre, saliva unitario da quella marea. Quando Papa Francesco apparve fu un solo enorme grido: “Vai, vai, e ritorna salvatore!” e tutte le campane di Roma, suonarono.

ATTO II° - L’ORA DEL PIANTO

    “Santità, Santità, non parta più” un grido percorse i grandi corridoi delle stanze vaticane e giunse fino alle orecchie del Papa. “Non parta più, hanno raggiunto un accordo di tregua e Israele si ritira”.
Mentre il cardinale sventolava sotto gli occhi buoni del Papa il giornale che con titoli cubitali riportava la notizia, Francesco aveva gli occhi fissi su una foto che riportava il deserto di macerie a cui era ridotta Gaza. Gaza e i palestinesi sedati, morti. Israele ha ottenuto il silenzio, sì, ma quello dei cimiteri.
    “Questo il risultato di quella impresa - gli disse Padre Jorge Hernandez, argentino, parroco a Gaza - Abbiamo ancora una volta potuto vedere che nella guerra non ci sono vincitori, ma perdono sempre tutti. Presto o tardi, in un modo o nell’altro, da una parte e dall’altra tutti pagano il prezzo della violenza e dell’odio che la violenza partorisce». Lo dirò all’Angelus – rispose Francesco - in Piazza S. Pietro, urbis et orbis, ma so che  non basta.
    Non è andato a Gaza, Francesco, ma a Redipuglia, sì!
"I numeri della prima guerra mondiale sono spaventosi - ha detto il Pontefice - si parla di circa 8 milioni di giovani soldati caduti e di circa 7 milioni di persone civili travolte. Questo ci fa capire quanto la guerra sia una pazzia, una pazzia della quale l’umanità non ha ancora imparato la lezione, perché dopo di essa ce n’è stata un’altra seconda, mondiale, e tante altre che ancora oggi sono in corso”.
    “Ma quando impareremo noi questa lezione?” "L’odio è il male vengono sconfitti con il perdono e il bene. La risposta della guerra fa solo aumentare il male e la morte”.
    "La guerra è una follia, è  solo  pianto".

ATTO III° -  NOI

    Lontano da Roma e da Gaza, vicino a me tre donne, ed io con loro siamo sconvolti da cosa sta avvenendo in Palestina e sentiamo il dovere di lanciare anche da Cuneo un appello contro la sordità e l’insensibilità verso il doloroso e ingiusto destino dei fratelli palestinesi, contro quell’«a me che importa?» scomunicato dal Papa e che alimenta lo spargimento di sangue. Ho scritto questo racconto che in modo fantastico si ispira a fatti veri, perché intendo porre a me ed alla gente, anche al Papa, una domanda sola: “Tu, come vivi?”. 
                                                                     

ANTONIO SARTORIS

Cuneo, 23 ottobre 2014



(Questo racconto è stato inviato a Papa Francesco – Vaticano – Roma.  Silenzio ! )